L’Anello e la virtù ne Lo Hobbit

di Giuseppe Sommaiuolo


Talvolta, può capitare che noi lettori tendiamo a sminuire il ruolo che Lo Hobbit gioca nell’intero contesto della cosmogonia tolkieniana. Troppo spesso considerato una semplice fiaba per bambini, enormemente sottovalutato, vuoi per via della sua prosa semplice e scorrevole, vuoi per i frequenti banchetti e le canzoni di cui la storia abbonda, vuoi per i toni più leggeri, se paragonato alla magnum opus del professore, l’avventura di Thorin e compagni non riceve mai l’attenzione che merita.

Tuttavia, occorre ricordare che certi “ritrovamenti”, avvenuti nella storia in questione, hanno influito profondamente sugli eventi che ci ritroveremmo a studiare sui libri di storia inerenti alla Terza Era, qualora ce ne fossero. Nel 1937, infatti, Tolkien stava già lavorando a quello che sarebbe poi diventato Il Silmarillion (pubblicato postumo nel 1977) e aveva probabilmente anche già abbozzato la questione degli anelli del potere. Il fortuito recupero di quell’anello magico che ne Lo Hobbit è un semplice monile che dona l’invisibilità a chi lo indossa, infatti, avrebbe modificato il corso della storia. Insomma, Lo Hobbit è volutamente propedeutico.
La letteratura cortese e le storie su re Artù ci hanno abituato ad un concetto di eroe specifico e ben definito. Si parla di uomini belli, alti e valorosi, che a cavallo di vigorosi stalloni bianchi, armati di lance o spade, viaggiavano protetti da cotte argentate dispensando giustizia e proteggendo gli indifesi. Non è difficile, dunque, immaginare la perplessità dei lettori, che in quei lontanissimi anni ’30 non poterono fare a meno di chiedersi, suppongo, perché una dozzina di intrepidi nani e un abile stregone avessero bisogno di un ladro per portare a termine la loro missione. Un ladro. Ma per fare cosa?
Poi, però, di punto in bianco, dal momento del fatidico ritrovamento, si rivelerà essere addirittura il deus ex machina, che più volte risulterà cruciale nella risoluzione di situazioni altrimenti disperate.
Questa è una delle motivazioni che possono erroneamente indurre il lettore ad immaginare Bilbo come il semplice tramite di una forza superiore, un guscio vuoto guidato dalla provvidenza o dalla fortuna o in qualsiasi altro modo la si voglia chiamare. Chi di noi, infatti, leggendo Lo Hobbit per la prima volta, non ha pensato che chiunque altro al suo posto, con il potere dell’invisibilità a sua disposizione, sarebbe stato in grado di fare esattamente le stesse cose?
Il termine, tradotto dall’inglese burglar, che vuol dire proprio “ladro d’appartamenti”, ha in effetti un’accezione negativa, assolutamente incompatibile con i principi cristiani e cortesi che muovevano le spade dei cavalieri della tavola rotonda. Altrettanto sconvolgente fu il fatto che la compagnia di Thorin si fosse rivolta, su consiglio di Gandalf, proprio a Bilbo: un mite e pacato hobbit il cui unico interesse era non far tardi per la cena e che di avventure non ne voleva proprio saper nulla.
Per comprendere a fondo Lo Hobbit, occorre innanzitutto considerare che la natura della quest, nella fattispecie, si distacca completamente da quel genere di ideali cavallereschi che abbiamo appreso da Chrétien De Troyes o da Thomas Malory. Non è infatti in nome di Dio o della cavalleria che Thorin e i suoi hanno deciso di intraprendere questa pericolosa spedizione: i nani rivogliono indietro il loro regno, ma soprattutto i preziosi tesori accumulati dai loro antenati nel corso dei secoli. Ma ormai, da tempo immemore, il terribile Smaug giace dormiente all’interno delle sale scavate nelle profondità di Erebor ed è impensabile entrare dalla porta principale e attaccare frontalmente. Non è così, infatti, che si affronta un drago. Il tesoro va trafugato. E a farlo sarà quello hobbit, apparentemente inutile e codardo. Sì: Bilbo non è un eroe.
Il fatto di aver affidato il ruolo più importante della spedizione alla persona apparentemente meno avvezza ad una tale responsabilità è l’ennesimo tocco di classe da parte di Tolkien. Bilbo sarà colui che trarrà il maggior vantaggio da quest’esperienza. Perché parte da zero. Per una buona prima metà della storia, non fa altro che nascondersi e lamentarsi, tremare di paura e sobbalzare ad ogni minimo rumore.

Personalmente, mi piace considerare l’anello come “un momento”, piuttosto che uno strumento. La presa di consapevolezza dei poteri magici del monile, rappresenta infatti un momento epifanico che segna una netta rottura tra il prima e il dopo. Non perché grazie all’invisibilità Bilbo riesce a contribuire in maniera più concreta alla spedizione, ma perché prende finalmente consapevolezza delle sue capacità: astuzia e determinazione, senza le quali non avrebbe mai potuto salvare i suoi compagni dai ragni giganti di Mirkwood o pianificare un’evasione perfetta dalla fortezza di Thranduil; e ancora, dialettica e retorica, fondamentali per il confronto diretto con Smaug. Mi permetto dunque di asserire, anche con una certa dose di convinzione, che no, non tutti sarebbero stati in grado di compiere le stesse gesta e di essere risoluti alla stessa maniera di Bilbo trovandosi in situazioni analoghe, anello o meno.

Tuttavia, nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza la madre delle virtù. L’idea di coraggio, seppur non necessariamente intesa nel senso platonico del termine o “alla maniera nordica”, come possiamo ad esempio osservare nel personaggio di Re Beowulf nell’omonima opera, è stata ridefinita dall’autore con attenzione e minuzia. Bilbo non si getta nella mischia menando fendenti a destra e a manca, né si affida alla fede alla ricerca di un qualche tipo di forza interiore. Quello di Bilbo è un coraggio intelligente, pratico. È semplice ma efficace, proprio come lo sono gli hobbit. Non rischia la vita scioccamente, non cerca lo scontro, ammenoché non sia strettamente necessario. È il ricorso alle vie traverse che fa la differenza. Un eroismo volto più ad aiutare che ad apparire. Si tratta di un tipo di coraggio diverso, un concetto innovativo, vivo nel cuore di un piccolo grande hobbit che viveva in un buco nel terreno. Per l’ennesima volta, e fortunatamente oserei dire, il vecchio stregone ha avuto ragione, e noi torto.

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Giuseppe Sommaiuolo. Nato e cresciuto a Napoli, tra partite di calcetto nel rione e notti brave in sala giochi, manifesta ben presto un senso di insofferenza che riesce ad appagare solo mediante lo studio della letteratura. Si avvicina alle opere di Tolkien grazie alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, trascorrendo così gli anni delle scuole superiori e dell'università ad approfondire le opere principali del beneamato professore. Grandissimo appassionato di musica rock ed heavy metal, nonché di quasi ogni forma d'arte esistente, risiede attualmente in Spagna, determinato a trovare il suo posto nel mondo a suon di tapas.