Tolkien e il coraggio nordico

di Giuseppe Sommaiuolo


Il fatto che l’opera di Tolkien sia stata fortemente ispirata dai miti nordici non è più un segreto ormai. Dopo decenni di critica letteraria e studi approfonditi, abbiamo infatti avuto modo di risalire alla maggioranza delle fonti che hanno influenzato il beneamato per tutta la sua vita, incidendo in maniera più o meno importante, a seconda dei casi, sul suo modo di concepire Arda e gli eventi in essa avvenuti nel corso di ben tre Ere. Nomi, razze, luoghi, sono solo alcune delle cose in cui possiamo trovare riscontro sfogliando i numerosi tomi esistenti sulle leggende di Odino. In un tempo in cui non si urlava al plagio tanto facilmente quanto oggi, un’ispirazione di questo tipo rappresentava, semmai, un valore aggiunto. 

Non esiste al mondo autore che abbia creato partendo da zero. Chi più, chi meno inconsciamente, hanno tutti subito le influenze del loro tempo, del loro paese, della letteratura o delle loro passioni. Non si può leggere Stephen King senza pensare all’America, ad esempio. Lo stesso vale per Tolkien. La sua sconfinata passione per le lingue, per la natura e per gli scritti antichi, convergono infine in quello che gli studiosi definiscono Legendarium[1], che rappresenta ben più della mera somma degli elementi sopracitati, ben più di un trasferimento di eventi e persone in un’ambientazione già esistente.

L’opera di Tolkien è originale, mostra carattere: è fedele a sé stessa. Anni e anni di studi e di appunti, riportati con cadenza regolare, confluiscono infatti in un risultato che si allontana di proposito, seppur con una certa cautela, da molti dei tratti che contraddistinguono i personaggi di cui si narra nei miti nordici, come quelle sacre virtù che se portate all’eccesso rischiano di rivelarsi fatali. Alcuni tra gli esempi più estremi, sono l’insensato orgoglio del re Beowulf nel fatidico combattimento contro il drago, o l’eroismo medievale che troviamo in Sir Gawain e il Cavaliere Verde, quasi costato la vita al giovane Galvano, nipote di Artù. 

Leggiamo uno spezzone del discorso pronunciato dal re dei Geati prima di andare incontro al suo destino. Neppure altre mille parole avrebbero saputo meglio descrivere il concetto di “insensato orgoglio”, definito in maniera più che perfetta in queste poche righe:

“Contro il serpente, se sapessi come affrontare, lottando per il mio onore, questo feroce distruttore, non porterei né spada né arma, così come, a suo tempo, feci con Grendel. Ma qui mi attendono il calore del fuoco tremendo, l’urto della fiamma, il veleno; per questo ho con me lo scudo e la cotta. Non cederò di un sol passo dinanzi al guardiano del tumulo; e sul pendio accadrà a noi due ciò che il Fato, l’Arbitro di ogni uomo, ha per noi decretato. 

Attendetemi qui, sulla collina, con indosso le corazze, voi guerrieri ben armati, per vedere chi di noi due avrà saputo meglio reggere le ferite, una volta che terminata sarà la lotta. Questo non è un compito adatto a voi, non è un compito alla portata di tutti, ma di me soltanto: nessun altro userà la propria potenza contro questo feroce distruttore, compiendo azioni cavalleresche. Col mio valore io conquisterò l’oro; se no, la guerra, crudele e malvagia e mortale, si prenderà il vostro principe.”[2]

L’eroe nordico viene infine tradito dal suo atteggiamento e dalla sua virtù, fino ad ora dimostratasi il suo più grande punto di forza: seppur conscio di andare incontro alla morte, accetta senza esitazione ciò che il fato gli riserva. La ragione? Dimostrare il proprio valore. L’unico modo per guadagnarsi il Valhalla. Identica sarebbe stata la sorte del giovane Gawain se non avesse superato la prova, questa volta di natura morale, del Cavaliere Verde. Congedatosi dal suo amato re il giorno dopo Ognissanti, si mette in viaggio con il cuore pesante e l’intento di tener fede alla parola data, indipendentemente dalle conseguenze. Gawain è un eroe cristiano. Non affronta la morte alla ricerca di onore e gloria, ma perché non vi è nulla al mondo più sacro della promessa di un cavaliere. A qualsiasi costo, essa va rispettata, come evidenziato nel seguente passo:

“Perciò mio buon sir Gawain, dirigetevi su un’altra strada, lasciate stare quell’uomo, nel nome di Dio, cavaliere! […] ed io subito tornerò indietro e sul mio onore qui attesto l’impegno a giurare per Dio e su tutti i Suoi santi onorati ed ogni simile giuramento, d’essere tenuto a serbare il segreto e mai pronunciare parola che per paura vi siate sottratto all’affrontare un nemico, per quanto io possa saperne”. “Ti ringrazio”, rispose Gawain, e contrariato soggiunse: “Che la fortuna t’assista, uomo che vuoi il mio bene […]. Ma allora sarei un cavaliere codardo, e non potrei avere scusante. No: mi recherò alla Cappella, qualunque fato m’aspetti, e scambierò con quell’uomo selvaggio quelle parole che più m’aggradano, sia per il bene che per il male, e sarà come il destino vorrà.”[3]

Tolkien non spreca i suoi personaggi. Ci sono stati, certo, dei momenti nella storia di Arda in cui il sacrificio era inevitabile, ma mai come fine ultimo vi fu uno scriteriato spirito di sacrifico.

Boromir non fronteggiò gli Uruk-Hai alle cascate di Rauros per ostentare le sue abilità di combattimento, così come Gandalf il Grigio non aveva nulla da dimostrare quando precipitò dal ponte di Khazad-dûm  mentre combatteva contro il Balrog. Si parla senza dubbio di eroismo, certo, ma di natura differente. L’eroismo tolkieniano è più sottile e lungimirante. Il sacrificio di Boromir e quello di Gandalf, annoverati tra gli eventi più significativi della Terza Era, hanno avuto luogo in funzione di un bene superiore, ovvero, la distruzione dell’Unico Anello.

Tutti e nove gli eroi della Compagnia, dallo hobbit più vivace al guerriero più prode, avrebbero dato la vita pur di portare a termine la missione a loro affidata, poiché consapevoli che dal loro agire sarebbe dipeso il destino di tutta la Terra di Mezzo. Ognuno di loro ha avuto, a suo modo, la possibilità di dimostrare che combattere per un bene superiore è più utile che morire per nulla. Questo è il vero carattere dell’eroismo tolkieniano, che ben si differenzia dal concetto nordico del termine, il quale pone invece in primo piano spericolati atti di coraggio mossi dall’orgoglio e dall’ambizione.


[1]Legendarium è un termine utilizzato dallo scrittore britannico J. R. R. Tolkien per riferirsi a tutte le sue opere sulla Terra di Mezzo, in particolare la si ritrova in quattro lettere private che scrisse tra il 1951 e il 1955, rispettivamente, lettare 131, 153, 154, 163.

[2]J.R.R. Tolkien (a cura di); Beowulf, Bompiani, 2014, vv. 2397-2416

[3]J.R.R. Tolkien (a cura di); Sir Gawain e il Cavaliere verde; Mediterranee; 2009; p. 84.

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Giuseppe Sommaiuolo. Nato e cresciuto a Napoli, tra partite di calcetto nel rione e notti brave in sala giochi, manifesta ben presto un senso di insofferenza che riesce ad appagare solo mediante lo studio della letteratura. Si avvicina alle opere di Tolkien grazie alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, trascorrendo così gli anni delle scuole superiori e dell'università ad approfondire le opere principali del beneamato professore. Grandissimo appassionato di musica rock ed heavy metal, nonché di quasi ogni forma d'arte esistente, risiede attualmente in Spagna, determinato a trovare il suo posto nel mondo a suon di tapas.