Tolkien e Platone

di Giuseppe Sommaiuolo


Quando si nomina Tolkien, è impossibile non pensare alla sua opera più famosa, Il Signore degli Anelli. Con quasi tre quarti di secolo di anzianità alle spalle, infatti, invecchia più che bene, come il vino buono. E proprio come il vino buono, il suo valore e la sua reputazione aumentano con gli anni.

Il beneamato professore fu l’autore di alcuni dei romanzi che hanno gettato le basi per la creazione di un genere tutto nuovo, influenzando la cultura popolare in maniera tanto significativa da rappresentare tutt’oggi un’ispirazione per molti scrittori in erba, ideatori di giochi da tavolo, videogames e migliaia di altre produzioni analoghe.

Ce lo immaginiamo seduto dietro una pesante scrivania di legno scuro realizzata in mogano, o magari in noce, rigorosamente intagliata a mano e abbinata con sapienza al resto della mobilia di un tipico studio inglese della prima metà del Novecento. Batte rumorosamente i tasti di una vecchia macchina da scrivere, con ritmo regolare, un ritmo interrotto soltanto quando si sofferma a scrivere appunti a matita su fogli sparsi qua e là, mentre sorseggia il suo té da un’elegantissima tazza dipinta. Una fievole luce filtra attraverso i grandi e fitti alberi che guardano la sua finestra, forse degli Ent guardiani messi lì apposta per proteggerlo da qualsiasi distrazione e assicurarsi che tutto proceda senza intoppi. Solo la luce, infatti, ha il permesso di entrare, perché lo ispira e lo illumina, in tutti i sensi. Una grossa libreria, posizionata alle sue spalle, viene messa in risalto dal chiarore tipico del sole dell’Inghilterra, e una parte dei tomi che contiene spicca in maniera particolare all’interno di quel triangolo di luce: sono quelli con i titoli stampati a lettere dorate. Caratteri piccoli, caratteri grandi, in stampatello e in corsivo, rilegature in pelle o in semplice carta, ogni libro scintilla a modo suo. Tolkien si gira, godendosi l’ultimo sorso del suo té, ormai tiepido, subito prima di riprendere a battere a macchina, in cerca di ispirazione, e infine la vede: la Falce dei Valar.

Quella libreria ospita tomi di ogni tipo: dalla linguistica alla filologia, dalla letteratura alla storia, dalla filosofia alla mitologia. Non tutti, infatti, sanno che il professore, come a molti dei più affezionati piace chiamarlo, fu un grande filologo, nonché un’autorità di un certo rilievo nell’ambito universitario del tempo. La professione di scrittore, infatti, costituì solo una piccola parte della sua vita, suddivisa tra impegni lavorativi e l’attività di padre di quattro figli e marito full time. La maggior parte del suo tempo, era infatti dedicato al lavoro e all’approfondimento della sua materia, la filologia inglese. Padroneggiò testi come l’Edda, tradusse il Beowulf dall’inglese antico e il Gawain e il Cavaliere Verde rispettando lo stile del revival allitterativo, raggiungendo i massimi livelli di conoscenza in materia di mitologia e cavalleria.

Leggendo una qualsiasi delle sue opere, è impossibile, anche per i meno esperti, non notare il gran numero di somiglianze con questo tipo di letteratura, in particolare quella nordica. Tuttavia, pensare che la sua conoscenza fosse limitata solo alla sua materia di studio sarebbe un errore. Anche la letteratura classica, infatti, ha molti punti di congiunzione con la cultura inglese, a partire da alcune similitudini linguistiche, fino ad arrivare alla filosofia. Il pensiero di figure come Socrate o Platone, infatti, ha rappresentato un punto di partenza universale anche per tutti coloro che si trovano al di fuori della “zona di influenza ellenica”, da sempre. Siamo troppo abituati ad associare i Valar alle divinità pagane del culto scandinavo, Valimar ad Asgard, la Dagor Dagorath al Ragnarok, e così via, senza mai tenere in considerazione spunti altrettanto potenti, legati ad esempio alla Bibbia o, appunto, alla letteratura classica. Basti citare il caso di Sodoma e Gomorra, che con ogni probabilità ispirò Tolkien, insieme al mito di Atlantide, durante la stesura della Akallabêth, ovvero la caduta d Númenor. E che dire del Signore degli Anelli? Si potrebbe pensare che in materia di artefatti magici e gioielli incantati la mitologia nordica non sia seconda a nessuno. Tutte quelle armi con poteri sovrannaturali come Mjolnir e Gungnir, l’anello magico di Odino, Draupnir, o ancora Skidbladnir, la nave “tascabile” di Freyr. Quei famosi versi che diedero inizio a tutto, familiari anche a coloro che del mondo di Tolkien non sanno nulla, inerenti ad un anello e ad un misterioso potere sembrano proprio estrapolati da una storia dell’Edda:

«Un Anello per domarli, un Anello per trovarli, un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli».

Poi un giorno ti ritrovi a sfogliare Platone, un vecchio tomo de La Repubblica che avevi dimenticato di avere. Non ricordi quando e se lo hai già letto, ma quel libro vecchio e logoro ti è familiare. È talmente usurato che sembra provenire direttamente dal IV secolo a. C. Le pagine sono ingiallite, qualcuna viene via. Ci sono anche delle note al margine scritte a matita, forse risalgono ai tempi della scuola. Si parla della giustizia, di cosa sia giusto e cosa no. Si parla delle qualità necessarie ad una persona per essere definita giusta. È un discorso molto lungo e articolato, complicato e ricco di implicazioni, fino a quando Glaucone, uno dei protagonisti del dialogo, non interviene raccontando il mito dell’anello di Gige. Il suo aneddoto vuole dimostrare che l’ingiustizia è insita nella natura umana, e che chi pratica la giustizia lo fa solamente per timore di essere scoperto. Essere ingiusti è infatti più vantaggioso, e dunque, potendo, tutti agirebbero ingiustamente.

Gige era pastore alle dipendenze del principe che governava allora la Lidia. Ora, in seguito a un nubifragio e a una scossa tellurica la terra si squarciò per un certo tratto producendo una voragine nel luogo dove egli pascolava l’armento. A quella vista, pieno di stupore, discese nella voragine e oltre alle meraviglie di cui narra la fiaba scorse un cavallo bronzeo, cavo, provvisto di aperture. Vi si affacciò e vide giacervi dentro un cadavere di proporzioni, a quanto pareva, sovraumane, senza nulla addosso se non un aureo anello alla mano. Glielo prese e se ne tornò fuori. Quando, come di consueto, si fece una riunione dei pastori per inviare al re il rapporto mensile sulle greggi, si presentò pure lui con l’anello. Ed ecco che, mentre se ne stava seduto insieme con gli altri, girò per caso il castone dell’anello verso la propria persona, dalla parte interna della mano, e con ciò divenne invisibile a quelli che gli erano seduti accanto, sì che discorrevano di lui come se se ne fosse andato. Ed egli se ne meravigliava e continuava a gingillarsi con l’anello finché ne girò il castone dalla parte esterna; e con ciò tornò visibile. Ripensando al caso, seguitò a fare prove con l’anello per controllarne questo potere e gli succedeva ogni volta di diventare invisibile se girava il castone verso l’interno, visibile se verso l’esterno. Come se ne rese conto, subito brigò per essere uno dei messi da inviare al re e quando giunse da lui, gli sedusse la moglie e con il suo aiuto lo assalì e lo uccise. E così conquistò il potere.1

L’anello di Gige, proprio come l’Unico Anello forgiato da Sauron, consentiva la massima libertà d’azione a chi lo indossava, sfruttando l’escamotage dell’invisibilità. Come già accennato in uno dei miei precedenti articoli, un potere del genere comporta una libertà d’azione pressoché totale, che talvolta però, rischia di distorcere o addirittura compromettere, per non dire corrompere, l’indole del fortunato beneficiario del potere in questione. L’aristocratico Glaucone sostiene infatti che la forza di volontà di una persona potenzialmente retta (qui evito di proposito il termine “giusto” onde evitare ulteriori e complesse disquisizioni filosofiche al riguardo) potrebbe facilmente vacillare ed essere messa in discussione dinanzi ad un tale dono. Non avrebbe Bilbo potuto facilmente uccidere le guardie della fortezza di Thranduil per rubare le chiavi e liberare i suoi compagni, piuttosto che aspettare che si addormentassero a causa del buon vino? Non avrebbe Frodo potuto sguainare Pungolo e colpire Boromir al cuore nel momento in cui egli tentò di sottrargli l’anello?

Benché i poteri dell’Unico andassero ben al di là della semplice invisibilità, le implicazioni morali legate al suo utilizzo sono pressoché le stesse della storia del pastore Gige. La differenza è che Tolkien decide, forse inconsciamente, forse no, di smentire la tesi di Glaucone dimostrando che non sempre il potere corrompe, né tanto meno il potere assoluto corrompe in maniera assoluta.

Un anello magico che rende invisibili e che avvelena l’animo del suo portatore. Dopo decenni passati a studiare la mitologia nordica intenti a carpire ogni minimo dettaglio che potesse ricondurre alle opere tolkieniane, è buffo rendersi conto che probabilmente una delle fonti d’ispirazione di uno dei romanzi più letti dell’ultimo secolo è da ricondurre ai pensatori dell’antica Grecia. Molto spesso, infatti, si commette l’errore di credere che la filologia inglese, così come qualsiasi altro campo, implichi lo studio esclusivo di certe materie e l’esclusione a priori di altre. Un umanista è invece ben più della somma di ciò che studia, e il suo percorso di formazione dura tutta la vita. Questo, è ciò che era Tolkien.


1 F.Sartori (a cura di) Platone, La Repubblica, Economica Laterza, 1994, pp. 65-66.

Giuseppe Sommaiuolo
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Giuseppe Sommaiuolo. Nato e cresciuto a Napoli, tra partite di calcetto nel rione e notti brave in sala giochi, manifesta ben presto un senso di insofferenza che riesce ad appagare solo mediante lo studio della letteratura. Si avvicina alle opere di Tolkien grazie alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, trascorrendo così gli anni delle scuole superiori e dell'università ad approfondire le opere principali del beneamato professore. Grandissimo appassionato di musica rock ed heavy metal, nonché di quasi ogni forma d'arte esistente, risiede attualmente in Spagna, determinato a trovare il suo posto nel mondo a suon di tapas.