di Giuseppe Sommaiuolo
Arrivati ad una certa età, iniziamo a guardarci indietro con una certa nostalgia: tutto ciò che riguarda il passato, anche le cose più scontate e banali, sembrano allontanarsi sempre più, e d’un tratto le domeniche estive trascorse a giocare a nascondino, la prima cottarella, le serate alla sala giochi, sembrano essere sempre più lontane. È più o meno ciò che mi è capitato qualche giorno fa, mentre riponevo in libreria il mio ultimo acquisto letterario (che probabilmente non leggerò mai). Ho avvertito come l’impulso di soffermarmi sulla sezione dedicata ai testi universitari, di rivivere anche solo per un attimo quei tempi di gioia e di dolore, di sfogliare alcuni dei vecchi classici studiati per chissà quale esame. Mi è saltato subito all’occhio un libro particolarmente vissuto, che nemmeno ricordavo di avere. Un tomo vecchio e ammuffito, giallo e spiegazzato, una di quelle edizioni super economiche che sembrano destinate agli studenti squattrinati fin dal momento in cui vengono stampate: il nome riportato sulla costa, scritto a caratteri gotici appena leggibili, era Il Ragno Nero. Di Jeremias Gotthelf.
Pseudonimo di Albert Bitzius, Gotthelf fu uno scrittore svizzero del diciannovesimo secolo, particolarmente noto per le sue opere a tema religioso e morale. Il Ragno Nero fu ed è una novella particolarmente significativa che affronta il tema della tentazione demoniaca e del male che scaturisce dal venire a patti con il Demonio.
In una pacifica comunità contadina stanziata in una valle dell’Emmenthal, il signorotto di turno avanza pretese impossibili che mettono i braccianti dinanzi ad un tragico dilemma: soddisfarlo e trascurare i campi in vista del rigido inverno, condannando quindi l’intera comunità a morire di fame, o lasciarsi aiutare da un ambiguo sconosciuto apparso dal nulla in cambio di un neonato non battezzato. Dopo un’iniziale fase di titubanza dovuta all’aura di mistero che circonda l’individuo, nonché al verificarsi di alcuni presagi soprannaturali, la decisione unanime è quella di rifiutare l’aiuto offerto dall’uomo, poiché si teme che egli sia il Demonio in persona. Tuttavia, la spregiudicata Cristina decide in gran segreto di stipulare quell’accordo, autoproclamandosi portavoce del villaggio e sugellando il patto con un bacio che l’avrebbe maledetta. Se la ride, mentre piena di sè si incammina verso casa per riferire la buona notizia a quel manipolo di fifoni e timorati, convinta di essere riuscita ad ingannare il Maligno e a salvare il suo villaggio. Se infatti ogni nascituro fosse stato battezzato immediatamente dopo il parto, egli non avrebbe mai potuto rivendicare la sua ricompensa. Tuttavia, le vie del Signore, sono infinite. La donna, in seguito ad orribili tormenti patiti per via di quel bacio, verrà progressivamente trasformata in un orribile ragno assetato di sangue, che mieterà vittime su vittime fino a quando il coraggioso Cristiano, uomo pio e buono, non sacrifcherà la sua vita per intrappolarla in un buco appositamente scavato.
L’opera ha chiaramente una valenza morale. Gotthelf (che letteralmente, in tedesco, significa “aiuto di Dio”) vuole ammonirci, vuole ricordarci che l’unica via è quella più difficile e che il prezzo da pagare per chi cerca una scorciatoia è l’oblio eterno. I contadini hanno abbandonato Dio e sono stati a loro volta abbandonati del momento in cui hanno deciso di stipulare un accordo con il suo nemico, a prescindere da quale fosse la natura del patto. E la punizione che si è abbattuta su di loro ha assunto la forma di un ragno, letale e invincibile.
La figura del ragno ha infatti sempre avuto un’accezione negativa per la religione cristiana, e più di una volta vi vengono fatti dei riferimenti nelle Scritture e nell’arte sacra. Il profeta Isaia, ad esempio, descrive il ragno come un’entità malvagia esclusivamente volta al male e il cui unico scopo è compiere atti sacrileghi.
Nessuno muove causa con giustizia,
nessuno la discute con verità;
si appoggiano su ciò che non è, dicono menzogne,
concepiscono il male, partoriscono l’iniquità.
Covano uova di serpente,
tessono tele di ragno;
chi mangia le loro uova muore,
e l’uovo che uno schiaccia, dà fuori una vipera.
Le loro tele non diventeranno vestiti,
né costoro si copriranno delle loro opere;
le loro opere sono opere d’iniquità,
nelle loro mani vi sono atti di violenza[1]
Il suo nutrimento è tutto ciò che di buono esiste al mondo. Il ragno richiama il male in tutte le sue forme, rappresenta la pazienza e la persistenza, e perché no, la fervente dedizione all’opera di distruzione della quale è perpetratore.
Ai tempi dell’università, quando lessi Il Ragno Nero per la prima volta, ero probabilmente troppo preso dai serratissimi ritmi accademici per far caso all’evidente similitudine che vi era tra il personaggio di Cristina, trasformata dal Demonio in una spietata tessitrice di morte, e Ungoliant, l’empia creatura che al fianco di Melkor attentò agli Alberi Sacri privando per sempre il mondo della loro luce. Le sue origini sono avvolte nel mistero, tanto che lo stesso Tolkien fornisce solo qualche vago dettaglio in merito, annoverandola tra le schiere di coloro che al principio di Eä furono corrotti da Melkor. Tuttavia, si narra che ben presto avesse ripudiato il suo Signore, desiderando essere padrona del proprio capriccio, prendendosi tutto quello che le abbisognava per nutrire il suo vuoto; ed era fuggita al sud […].[2]
Ungoliant era un essere estremamente pericoloso, temuto dallo stesso Morgoth, il quale, per ottenere il suo aiuto, dovette prometterle tutto ciò che la sua brama potesse esigere.[3] Proprio come Cristina, se la rideva, crogiolandosi nella convinzione di essere troppo furbo per subire delle conseguenze scaturite da vane promesse. Ma Ungoliant, al compimento della sua empia opera di distruzione esigette da Melkor ciò che egli non poteva e non voleva darle. L’Oscuro Nemico del mondo era alle strette, e più non rideva:
«Cuor nero!» gli disse. «Ho fatto come volevi. Ma io ho ancora fame.» «Che altro vuoi?» chiese Morgoth. «Desideri forse il mondo intero onde riempirti la pancia? Mica ho promesso di dartelo. Io ne sono il Signore.» «Non chiedo tanto» replicò Ungoliant. «Ma a Formenos ti sei impadronito di un grande tesoro; lo voglio tutto. Già, a piene mani tu me lo darai.» E allora, volente o nolente, Morgoth le consegnò le gemme che portava con sé, una a una, mugugnando; ed essa le divorò, e la loro bellezza scomparve dal mondo. Ancora più brutta e scura divenne Ungoliant, ma la sua brama era insaziata. «Con una mano sola hai dato,» disse «soltanto con la sinistra. Apri la destra.» Nella destra, Morgoth teneva stretti i Silmaril e, benché fossero chiusi in uno scrigno di cristallo, avevano cominciato a ustionarlo, e il suo pugno chiuso era dolente; ma non voleva aprirlo. «No!» esclamò. «Hai avuto il tuo. Perché la tua opera è stata compiuta grazie al potere che io ho messo in te. Non ho più bisogno di te. Queste cose tu non le avrai né le vedrai. Saranno mie per sempre.» Ma Ungoliant era divenuta grande, ed egli s’era rimpicciolito per via del potere che aveva ceduto; ed essa gli si levò contro, e la sua nube gli si serrò attorno, e Ungoliant lo avvolse in una rete di corregge avvinghianti con l’intento di strangolarlo. Allora Morgoth diede in un terribile urlo e ne riecheggiarono i monti.[4]
Ungoliant era terribile, e proprio come il Ragno Nero venuto fuori dalla penna di Gotthelf, era posseduta da un’inarrestabile brama di distruzione, una brama che poteva essere appagata solo con un sacrificio estremo, come quello del povero Cristiano che a costo della vita imprigionò nuovamente il ragno nel nome di Dio, o quello di Melkor, se i Balrog non fossero accorsi in suo aiuto.
Benché nella novella di Gotthelf la figura del ragno volesse essere una metafora della punizione divina che si abbatte sui peccatori e lo scopo ultimo del racconto fosse quello di trasmettere un insegnamento di natura morale, la furia selvaggia con cui entrambe le creature si abbattono sulle proprie vittime è la medesima. La figura del ragno, nella simbologia religiosa e nella cultura popolare, viene infatti utilizzata, nella maggior parte dei casi, per far riferimento a tutta una serie di caratteristiche negative, come ad esempio richiami allegorici ad un male superiore ed ultraterreno.
Un ringraziamento speciale a Valentina, grazie alla quale la stesura di quest’articolo è stata possibile. Le nostre disquisizioni letterarie sono infatti la linfa da cui traggo la maggiore ispirazione.
[1] Isaia 59, 4-6.
[2] J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Rusconi, 1978, Milano, p. 60.
[3] Ibidem, p. 61.
[4] Ibidem, p. 66.
Giuseppe Sommaiuolo. Nato e cresciuto a Napoli, tra partite di calcetto nel rione e notti brave in sala giochi, manifesta ben presto un senso di insofferenza che riesce ad appagare solo mediante lo studio della letteratura. Si avvicina alle opere di Tolkien grazie alla trilogia cinematografica di Peter Jackson, trascorrendo così gli anni delle scuole superiori e dell'università ad approfondire le opere principali del beneamato professore. Grandissimo appassionato di musica rock ed heavy metal, nonché di quasi ogni forma d'arte esistente, risiede attualmente in Spagna, determinato a trovare il suo posto nel mondo a suon di tapas.