Ancora su Newman e Tolkien

 

Qualche tempo fa, un tale chiedeva al pubblico di una trasmissione radiofonica quale fosse il capitolo del Signore degli Anelli che i suoi ascoltatori avevano preferito. Uno degli ascoltatori era intervenuto, indicando il capitolo intitolato: “Percorrendo la Contea”. La cosa aveva colpito chi scrive, perché quell’ascoltatore aveva argomentato la sua scelta sostenendo di essere rimasto colpito dalle ferite che quel luogo idillico aveva subito. Il responsabile della trasformazione della Contea da luogo ameno dove si conduceva una vita agreste, a incubo della rivoluzione industriale, è lo stregone Saruman. Quel personaggio traviato dal male era, secondo l’ascoltatore, l’emblema dell’attacco dell’uomo moderno alla natura. Siccome in quei giorni veniva canonizzato John Henry Newman, l’occasione era buona per fare alcune riflessioni sul senso di questo attacco alla natura, che secondo l’autore di questo articolo è piuttosto un attacco alla natura dell’uomo. Gli hobbit sono creature legate alla terra e alla vita agreste:«amanti della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata»1.

Si potrebbe dire che è proprio l’essere legati a questo stile di vita che permette loro di capire qual è il loro posto nel mondo. L’uomo, infatti, come gli hobbit, ha bisogno di coltivare con pazienza le proprie disposizioni, al fine di farle fruttare in maniera positiva. Coltivare con pazienza significa ad esempio non forzare la mano al tempo che abbiamo a disposizione, o cercare di vedere il significato delle nostre azioni oltre l’immediato.

Questa disposizione, che per Newman era un modo di attenersi alla realtà, diventa un “non far violenza alla natura”. Quella del cardinale era la filosofia del common sense, o se vogliamo, del buon senso. Un buon senso che vediamo presente negli hobbit, come era ben presente in chi ancora più di noi aveva a che fare con i limiti posti dal mondo naturale: l’uomo medievale. Il buon senso dell’uomo medievale è quello di chi si attiene alla realtà della vita, contro chi guarda ai sentimentalismi della buona morte. Il problema di questo sentimentalismo è il suo cercare un mondo asettico e privo di difetti. Nel suo Primo Sermone tenuto all’università di Oxford, Newman, sottolinea come la sicurezza nei propri mezzi e nella propria acutezza di ragionamento siano caratteri incompatibili con lo studio serio del mondo: «indulgere all’immaginazione, benché sia un difetto più specioso, è ugualmente ostile allo spirito della vera filosofia, e ha sviato i più nobili teoreti dell’antichità, che sembravano pensare di non poter sbagliare finché seguivano gli impulsi naturali e i suggerimenti della propria mente, ed erano coscienti che nessun motivo basso o indegno li influenzasse nelle loro speculazioni»2. John Henry Newman sosteneva che fosse importante costruire il proprio studio e la propria indagine del mondo a partire dal riconoscere di essere persone limitate: bisogna accettare di essere ignoranti, di non possedere tutte le risposte, di avere dei limiti fisici ai quali non si può porre rimedio, di avere
persone che non concordano con niente di quello che diciamo. La natura del buon senso sta proprio nel riconoscere che non siamo perfetti e che c’è bisogno di umiltà nel prendere una decisione o nel costruire una teoria del mondo. Quest’umiltà manca a Saruman, e la sua mancanza di umiltà lo svincola dalla sua realtà di potente sconfitto. Lo stregone si riempie di un odio che lo estranea al punto da voler deturpare la Contea, colpevole di essere la casa pacifica degli Hobbit, creature da lui considerate irrilevanti, ma che erano finite per sconvolgergli i piani. La sua mancanza di contatto con la realtà pratica, e una preferenza per il contatto solo con i potenti, lo ha tratto inganno, perché egli si è affidato ad una logica svincolata dal mondo nel quale viveva. A riguardo, Newman sa bene che le sofisticazioni della mente è proprio quello di produrre degli inganni: la logica costruisce percorsi razionali ineccepibili, ma spesso richiede che le vengano concesse delle premesse totalmente arbitrarie. Il modo di procedere della logica, se non se ne curano le premesse, arriva a schiacciare quella che è la realtà effettiva, per
piegarla alle proprie regole. Le teorie che vengono così costruite, non sono altro che opinioni su un determinato argomento, per le quali facciamo ben poca autocritica. Questa disposizione a rifiutare il contatto con le fatiche e le banalità della realtà quotidiana è tipica di quegli «uomini che conoscono soltanto poco, proprio per questa ragione sono per lo più sotto il potere dell’immaginazione, che colma per loro a piacimento quegli ambiti della conoscenza ai quali essi sono estranei; e, poiché l’ignoranza delle menti abiette indietreggia davanti agli spettri che vi coltiva, l’ignoranza del presuntuoso è ignorante e piena di sé»3.

La presunzione e l’ignoranza dello stregone, sono quelle che gli fanno credere in qualche modo di aver vinto, e che il danno causato al paese degli hobbit avrebbe rovinato la vita di quelle persone. Perché credeva che anch’essi avrebbero provato quello che lui credeva di aver ingiustamente subito.
Ma è a quel punto che l’intercessione di Frodo nei confronti di Saruman, che ha appena cercato di ferirlo, risulta ancora più bruciante: «Non ucciderlo neppure adesso. Non mi ha ferito. E comunque non desidero che venga ucciso mentre si trova in questo suo malvagio stato d’animo. Fu grande un tempo, di una razza nobile, contro la quale non dovremmo osare alcuna violenza. È caduto, e non possiamo curarlo; ma voglio risparmiarlo, nella speranza che un giorno guarisca»4. Quella guarigione non arriverà mai, perché sarà Vermilinguo, il servitore più maltrattato da Saruman, ad ucciderlo a
tradimento. Ciò che lo Stregone aveva compiuto nell’attacco alla Contea, era forse un tentativo di rivalsa nei confronti di un mondo che egli non aveva saputo leggere né interpretare. La sua sfida alla limitatezza, era diventata una sfida alla realtà che aveva voluto dominare, e contro la quale alla fine i suoi inganni e le sue astrazioni erano cadute. Saruman, per descriverlo con le parole di Newman, sembra uno di quegli «uomini malvagi, la cui ragione è stata destata dall’educazione, [e che], risoluti a non “essere tormentati prima del tempo”, cercano nell’ebbrezza dell’oblio la loro sventura. Essi negano che avrebbero potuto mai essere diversi da come sono. “Quale il cielo mi ha fatto così devo essere”, è il sentimento che li indurisce in un orgoglio e una ribellione disperati»5.

Percorrendo la Contea è davvero un capitolo suggestivo, all’interno dell’opera di Tolkien. Ma ritengo che l’attacco alla Contea, più che un attacco all’ambiente naturale di per sé, sia un attacco alla natura dell’uomo. Uomo che in questi ultimi due secoli è stato inteso come qualcosa di opposto alla natura, e alla costante ricerca di un progresso che lo portasse a trascendere la sua condizione materiale prima e la sua condizione umana poi. Il tentativo di eliminare queste condizioni che limitano l’uomo, quali sono le condizioni imposte dalla natura, si scontra di fronte a quella morale che ci fa intravedere Frodo: la morale dettata dalla pietà. Perché come in Newman, così come ritengo in Tolkien, la coltivazione umile e paziente delle virtù è la miglior difesa contro le distruzioni perpetrate dall’uomo quando cerca di divorziare dalla realtà che lo circonda.

Francesco Perin

 

 


1 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, trad. it. di V. Alliata e Q. Principe, Rusconi, Sant’Arcangelo di Romagna, pag. 25.

2 J.H. Newman, Grammatica dell’Assenso, trad. it. di L. Erbifiori e B. Gallo, Jaca Book, Milano 2005, pag. 45.

3 J.H. Newman, Quindici Sermoni predicati all’Università di Oxford fra il 1826 e il 1843, pag. 143. 

4 J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, pag. 1213.

5 J.H. Newman, Quindici Sermoni predicati all’Università di Oxford fra il 1826 e il 1843, pag. 283.

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