di Emilio Patavini
Il 2 novembre 2022 è uscita la prima edizione italiana del terzo volume della Storia della Terra di Mezzo, I Lai del Beleriand, finora inedito in italiano. Uscito per la prima volta nel 1985, I Lai del Beleriand contiene due componimenti principali scritti da Tolkien: Il Lai dei Figli di Húrin e Il Lai di Leithian. Per lai si intende un breve componimento poetico, in versi ottosillabi in rima baciata, diffusosi in Francia nei secoli XII-XIII e che molto spesso trattava la matière de Bretagne, come i celebri lai di Maria di Francia.
Il Lai dei Figli di Húrin è un poema in versi allitterativi sulla storia di Túrin Turambar composto negli anni ‘20, nel periodo in cui Tolkien insegnava presso l’Università di Leeds. Esso è, secondo il curatore Christopher Tolkien, «l’espressione più elevata del suo persistente amore per il carattere evocativo e riccamente sonoro che si poteva raggiungere usando l’antico metro inglese» (p. 5). Nell’estate del 1925, Tolkien abbandonò Il Lai dei Figli di Húrin per iniziare il Lai del Leithian, a cui lavorò per sei anni, per poi accantonare il progetto nel settembre 1931. Per il Lai del Leithian, Tolkien adottò metricamente il «distico regolare ottosillabo del romance» per cantare in versi la storia di Beren e Lúthien. Nel 1929, “il poema di Tinúviel”, come Tolkien era solito chiamarlo, fu letto da C.S. Lewis, che agli inizi del 1930 gli inviò quattordici pagine di commento sotto forma di analisi accademica. Nel suo commento, riportato in appendice al volume, Lewis finge di analizzare un antico poema anonimo in un gioco di dotti rimandi e citazioni (ovviamente fittizie) di studiosi del diciannovesimo secolo. Le note di Christopher Tolkien al commento di Lewis riportano le occorrenze in cui il testo del Lai è stato lasciato inalterato e quelle in cui Tolkien lo ha modificato seguendo i consigli dell’amico. Nel 1945 o ‘50, dopo aver portato a termine Il Signore degli Anelli, Tolkien rimise mano al Lai del Leithian con l’intenzione di farne una revisione, ma alla fine si ritrovò a scrivere «un nuovo poema sul medesimo soggetto, nello stesso metro del precedente» (p. 423). Il Lai del Leithian ricominciato è seguito, come al solito, da note testuali e da un breve commento. È interessante notare che in questi componimenti i nomi dei luoghi e di alcuni personaggi non sono ancora quelli definitivi con cui siamo abituati a chiamarli: per esempio, il lupo Carcharoth è qui chiamato Karkaras; Thû, il Signore dei Lupi sostituisce Tevildo, il Principe dei Gatti, e anticipa il personaggio di Sauron; gli Elfi hanno ancora l’antica denominazione di Gnomi; la montagna sacra di Taniquetil è chiamata Tain-Gwethil; il nome del Vala Ulmo è Ylmir.
J.R.R. Tolkien, Glórund sets forth to seek Túrin
Il volume si segnala per la pregevolissima traduzione di Luca Manini, una traduzione che riesce a essere evocativa e al tempo stesso fedele al testo originale. In questi componimenti finalmente tradotti in italiano emergono tutti gli stilemi della poesia di Tolkien, come gli epiteti formulari e le perifrasi tipiche della poesia epica, l’uso di arcaismi e una particolare attenzione alla suggestione fonetica delle parole. La traduzione mantiene la divisione del verso in due emistichi come nell’originale di Tolkien, che si rifaceva inevitabilmente alla scansione del verso tipica della poesia allitterativa germanica. Ma non solo, la traduzione riesce anche a riprodurre il diverso andamento dei due Lai: nel Lai dei Figli di Húrin il verso è più ritmato e ricorre spesso all’allitterazione (anche a chiasmo, come tipico di Tolkien) e alle inversioni sintattiche; Il Lai del Leithian rinuncia alla rima dell’originale per restare fedele al significato, ma restituisce pienamente la musicalità del verso tolkieniano. I poemi sono accuratamente commentati dal curatore Christopher Tolkien, le cui osservazioni tracciano l’evoluzione delle leggende tolkieniane attraverso le diverse versioni dei componimenti, le variazioni di nomi e i cambiamenti metrici e stilistici in un apparato critico ricco di note alla fine di ogni componimento. A rendere più completo il volume c’è anche una “Nota sulla proposta originale del Lai del Leithian e del Silmarillion nel 1937”. Nel 1937, infatti, dopo il successo ottenuto da Lo Hobbit (1937), J.R.R. Tolkien inviò vari manoscritti al suo editore, Stanley Unwin, tra cui il Lai del Leithian (allora chiamato The Gest of Beren and Lúthien) e Il Silmarillion. Segue infine un “Glossario delle parole obsolete, arcaiche e rare, e dei loro significati”.
In occasione dell’uscita de I Lai del Beleriand in italiano abbiamo intervistato Luca Manini, insegnante di inglese nei licei e apprezzato traduttore. Ha tradotto, tra gli altri, Edmund Spenser, George Orwell, Lewis Carroll, Charlotte Brontë, Robert Burton, Henry James, Edgar Lee Masters, Wilfred Owen e J.R.R. Tolkien. Sue sono le traduzioni de La caduta di Gondolin, La Storia di Kullervo, Beowulf, Beren e Lúthien e de I Lai del Beleriand.
Benvenuto Luca su Tolkien Italia! Grazie per aver accettato questa intervista. Quali sono state le maggiori difficoltà, se ne hai incontrato, durante la traduzione? La poesia di Tolkien è difficile da rendere in italiano?
La lingua poetica di Tolkien è una lingua sorretta e animata da una vena musicale che si fa, di volta in volta, drammatica, tragica, dolce, romantica, soave. A ciò si aggiunge l’ampio uso che Tolkien fa di parole desuete, per non dire arcaiche, tratte direttamente dai testi o anglosassoni o medievali. La difficoltà maggiore è quella di mantenere la musicalità del verso, e la sua scorrevolezza, non priva di spigoli e di asperità. Quanto agli arcaismi, questi vanno mantenuti – usando quella che mi piace definire una ‘patina d’antichità’, ossia una coloritura che dica che i testi che si stanno leggendo sono volutamente immersi in un’atmosfera che appartiene al passato. Quanto alla musicalità, questa deve sgorgare dal cuore del traduttore – quando traduco il mio cuore deve battere assieme al cuore del poeta. E il cuore di Tolkien pulsa, vivo, e vivificante, nei suoi versi – come nella sua prosa. Sono al quinto libro che traduco di Tolkien, molte parti dei quali erano in poesia; seppure non si possa mai dire di conoscere veramente la lingua di un autore, oramai mi accosto ai suoi versi con uno spirito quasi di familiarità – ed essi mi scorrono dalle dita (e dal cuore) con abbastanza facilità. Senza che però questo tolga un lungo lavoro di rilettura, di riscrittura, fino al momento in cui il testo arriva a convincermi (ovvero – lo sento mio).
La tua è sicuramente una traduzione che rende la musicalità dei versi restando fedele al testo, senza stravolgere il suo senso originario. È per questo che hai scelto di non tradurre le rime ne Il Lai del Leithian?
La rima è, nell’ambito della traduzione poetica, una ‘brutta bestia’, se così posso esprimermi … Perché essa, se usata non come semplice ornamento o come mera risposta a uno schema metrico rigido, ha una forza tutta sua di unire, in modo potente, due parole (ho sempre in mente il legame che i poeti del medioevo tedesco crearono tra not e tod, ossia tra necessità e morte). Questo legame (creato con piena coscienza e volontà) va perduto in italiano, il che è inevitabile. Il tentativo di tradurre sonetti o altre forme chiuse ricreando rime in italiano necessariamente implica l’uso di parole diverse dall’originale, e questo sposta l’accento su parole che non sono le parole scelte dall’autore – il che è, secondo il mio parere, un torto fatto a lui.
Tradurrai altri volumi della Storia della Terra di Mezzo o altri libri di Tolkien?
No, purtroppo no. Il lavoro è stato affidato a un gruppo di traduttori i quali lavoreranno a stretto contatto con gli esperti dell’AIST. Altri libri di Tolkien, invece sì – con mio grande piacere. Uno l’ho già consegnato alla Bompiani, un altro lo consegnerò in maggio. E vi sono altri titoli in attesa – non posso dire quali per una richiesta di segretezza da parte della casa editrice …
Quale componimento ti ha colpito maggiormente tra quelli da te tradotti?
La storia che più amo è quella di Beren e Lúthien. Ne avevo già tradotto una versione per il volume uscito qualche anno or sono [si tratta di Beren e Lúthien, Bompiani 2017; N.d.R.]; e ho molto amato poterla riprendere qui, nei Lai del Beleriand. È una storia che parla, che continua a parlare al mio cuore. È una storia fatta di scene che, una volta lette, non escono più dallo spirito. Tolkien è riuscito a creare un universo d’amore che ha in sé echi di tante storie d’amore (Tristano e Isotta, Lancillotto e Artù, …) ma che è una storia nuova, e sempre nuova, a ogni lettura. Indimenticabile è Lúthien che chiede un telaio, che intesse i propri capelli per creare un manto che, rendendola invisibile, le permetta di fuggire, di ricercare l’amato, e perduto, Beren …
Quali sono a tuo avviso i modelli letterari a cui Tolkien si è ispirato per comporre questi lai, oltre naturalmente alla poesia allitterativa anglosassone? Un primo nome che mi viene in mente potrebbe essere quello di William Morris, un autore che conosci molto bene…
Occorre fare una chiara distinzione fra il lai dedicato ai figli di Húrin e quello dedicato a Beren e Lúthien. Il primo è scritto secondo lo stile e le forme dell’antica poesia anglosassone, costruita con versi di lunghezza variabile, divisi da una cesura, e nei quali valevano come misura metrica la presenza di quattro accenti principali, e l’allitterazione; il secondo, invece, è scritto secondo i modelli dei romance medievali francesi, con versi brevi (ottosillabi) uniti dalla rima, i cui più classici esempi sono i romanzi cortesi di Chrétien de Troyes e di Marie de France. Tolkien conosceva benissimo sia la poesia anglosassone che la poesia medievale (teste ne sia la sua traduzione dei tre poemetti del XIV secolo, d’autore ignoto, Sir Gawain e il Cavaliere Verde, Perla e Sir Orfeo. A questi influssi diretti, certo va accostata la lettura di un poeta come William Morris (il quale fu, come Tolkien traduttore del poema anglosassone Beowulf). Morris fu il creatore di mondi poetici ispirati al passato, al passato nordico e a quello greco, e a quello medievale, momenti del passato rivissuti, da lui, secondo lo spirito del XIX secolo. Morris fu (sulla scia di Spenser, Keats e Tennyson) un cultore della musicalità del verso, della scorrevolezza della narrazione, del potere evocativo della parola poetica – elementi, questi, che possiamo rinvenire anche nelle creazioni poetiche di Tolkien. Nominavo, prima, il rivivere il passato secondo lo spirito del proprio tempo – e non è, questo, un elemento da trascurare, perché, ovviamente, i poemi ‘medievali’ di Morris e di Tolkien non sono e non possono essere medievali se non nel senso di una ricreazione cosciente e consapevole di un tempo definitivamente scomparso, e la cui ricreazione ha in sé la presenza degli eventi storici dell’epoca vittoriana, o dei primi decenni del novecento (primo fra tutti, la Grande Guerra).
Come lavora un traduttore? Qual è il tuo metodo di traduzione?
Ogni traduttore ha un proprio metodo. Fondamentale è, innanzitutto, leggere e rileggere il testo originale, fino a farlo proprio – occorre possedere un testo prima di tradurlo. Poi, io amo, solitamente, approntare una prima bozza di traduzione, condotta rapidamente, per poi riprenderla e ripensarla, rimeditarla, parola per parola, verso per verso – un lavoro di lima che può portare a tre, quattro riscritture, fino a raggiungere un testo che deve convincermi sia come fedeltà al testo originale sia come intima pulsazione di sentimento – il cuore del traduttore deve battere all’unisono con la voce del poeta tradotto; se non vi è questa compenetrazione sentimentale, la traduzione è, per me, fallita.
Come hai iniziato a fare il traduttore? Hai qualche consiglio da dare a chi volesse intraprendere la carriera di traduttore?
Ho iniziato ormai oltre trent’anni fa, guidato dalla mia passione per la letteratura e dal desiderio di cimentarmi con la resa italiana di testi che particolarmente amavo. Sono partito traducendo i poeti vittoriani; poi, i casi della vita mi hanno condotto a specializzarmi in testi poetici del Cinquecento e del Seicento. Per chi voglia accostarsi al lavoro di traduzione, posso consigliare di leggere, leggere molto – sia in italiano sia nella lingua originale; e di studiare, a fondo, la storia della letteratura. E di esser consapevoli che il lavoro di un traduttore non è mai finito – e che ogni traduzione non è se non una possibile traduzione, una delle mille possibili rese. Un’altra qualità è l’umiltà – non dire mai: questa è la miglior traduzione! No, non esiste la miglior traduzione …
Nota: si ringrazia l’Ufficio Stampa Bompiani per aver gentilmente inviato una copia del libro al recensore.
Emilio Patavini (Genova, 2005). Appassionato lettore di fantasy, fantascienza, weird e horror, si interessa di letterature medievali germaniche, mitologia comparata e di studi sulla vita e le opere di J.R.R. Tolkien. Si occupa in particolare delle fonti di ispirazione mitologiche, letterarie e linguistiche di Tolkien e le loro influenze sul legendarium, e del rapporto tra Tolkien, il fantasy e la fantascienza. Nel 2019 ha tenuto una conferenza su Tolkien dal titolo “Tolkien Ritrovato”. È stato membro della Tolkien Society inglese e ha scritto articoli e recensioni per Amon Hen: Bulletin of the Tolkien Society, LibriNuovi (http://librinuovi.net/) e Liberidiscrivere (https://liberidiscrivere.com/). È intervenuto in varie puntate della web-radio “La Voce di Arda”. Nel dicembre 2020 è entrato a far parte della redazione di Tolkien Italia.