Completiamo adesso la storia degli studi di lingue elfiche cercando di fare un quadro di cosa sappiamo oggi e cosa è stato ricostruito fino ad adesso. Quel che precisamente voglio chiederti è che tipo di materiale filologico si aveva a disposizione alla fine degli anni ’90, quando Jackson girò la sua prima trilogia tratta da Il Signore degli Anelli, e che cosa invece hanno potuto usare oggi gli sceneggiatori del biopic “Tolkien”: secondo te l’avanzamento degli studi linguistici tolkieniani avrà dunque un peso in questa nuova realizzazione, in uscita a maggio per gli anglofoni e a settembre in Italia?
Tra fine anni ’90 e inizio anni 2000 erano usciti dei compendi delle lingue che Tolkien aveva consolidato solo nel dopoguerra, lo Gnomico e il Qenya, se vogliamo “antenati” di quelli che tra gli anni ’30 e ’50 sarebbero diventati il Sindarin e il Quenya che conosciamo da Il Signore degli Anelli. David Salo aveva dato da poco alle stampe il suo Gateway to Sindarin, che vari critici ribattezzarono di fatto to NeoSindarin in quanto i tempi erano piuttosto acerbi per tentare un compendio sensato del Grigio Elfico – il che per certi versi continua ad esser vero ai giorni nostri – e il buon Salo aveva inserito nell’opera una consistente parte di deduzioni postume a Tolkien. La svolta nello studio delle lingue nella loro versione più moderna si ebbe solo nel 2007 con la pubblicazione di Words, Phrases and Passages in The Lord of the Rings (come a dire, Parma Eldalamberon 17), una raccolta di note sui campioni salienti di Quenya, Sindarin, Khuzdul, Rohirrico e Linguaggio Nero presenti ne Il Signore degli Anelli con traduzioni dettagliate, spiegazioni sintattiche e una discussione sulle etimologie delle varie parole e nomi. La nota saliente è che per i termini elfici vi è la spiegazione della loro derivazione dall’Eldarin Comune, lingua che non trova luogo in nessuna delle narrazioni più note ma è forse la più studiata da Tolkien stesso in quanto rappresenta la fase in cui si specializzano tutte le lingue elfiche della Terza Era, Quenya e Sindarin in testa. Le altre pietre miliari sono uscite tra il 2010 e nel 2015, con i numeri dal 19 al 22 di PE che hanno chiarito aspetti sino ad allora inaffrontati sul sistema dei sostantivi e dei verbi in Q(u)enya e l’ormai consueta, tecnicissima ed utilissima correlazione con le radici dell’Eldarin Comune. Ma tutto questo risulterà utile particolarmente a chi lavorerà al progetto della serie TV, poiché per quanto riguarda il film biografico, che si svolge in un arco temporale in cui si stava appena definendo il Qenya e addirittura anche lo Gnomico era ancora di là da venire, era già noto molto di quel che può essere utile ad arricchire la sceneggiatura senza renderla un mattone apprezzabile in Italia solo da me e qualche altro impallinato.
Torniamo ora nel nostro paese e facciamo un’altra panoramica, per chiudere bene e completare al meglio il nostro discorso. Tu sei un tolkieniano di lungo corso, nonostante la ancora giovane età e le tantissime idee che stai e devi ancora portare avanti: hai militato in gruppi e associazioni da te fondate (Eldalie), co-fondate (Tolkien Italia), di cui sei membro di spicco (STI) o tra i principali rappresentanti e figure chiave (Tolkieniani Italiani). Tra le varie iniziative di cui sei stato protagonista c’è anche un corso di lingue elfiche. Spiegaci dunque qual è il ruolo delle lingue elfiche negli studi tolkieniani, all’estero e in Italia, se e come nel nostro paese vengono studiate seriamente e qual è il ruolo che gli studi linguistici possono assumere in prospettiva, anche rispetto all’interesse che vedi nelle persone.
Mi fai una domanda la cui risposta potrebbe portarci su terreni che non vorremmo mai percorrere. Cercherò di non strabordare. All’estero, complice l’attività dell’E.L.F., sono almeno quarant’anni che le lingue di Arda sono oggetto di studi, convegni e pubblicazioni. In Italia il mondo accademico vede ancora Tolkien come lo “scrittore fantasy” e il dibattito tolkieniano si avvita su un improbabile RisiKo tra fascisti e comunisti su chi sia degno o meno di parlare del Professore e della sua opera, e in che termini. Una roba che mi causa moti di ripulsa anche solo a pensare con che parole descriverla. Fino a circa metà del 2016 l’unico tentativo editoriale, velleitario quanto adorabile, di fare breccia nel discorso della filologia di Arda è stato La trasmissione del pensiero e la numerazione degli Elfi, con cui l’allora Gruppo Studio Marietti diffuse per la prima volta le traduzioni italiane di quattro brani apparsi su altrettanti numeri di Vinyar Tengwar. Non ho mai avuto idea di quanto si sia diffuso tra il pubblico tolkieniano nostrano, peraltro. Nella prima parte di quell’anno si tenne la stupenda esperienza dei primi corsi, tra l’edizione sperimentale di Bologna e quella più strutturata che mi onorai di tenere presso l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici, ma anche lì si trattò più di divulgazione che non di studi veri e propri di una certa portata. Pensai e sperai che fosse la volta buona in cui piantare il seme anche nell’ambiente degli studiosi e degli accademici; purtroppo però chi si appropriò di quel seme lo fece germogliare in un terreno al quale poi mi impedì l’accesso, facendo propria l’idea di interessare un docente e un corso di laurea a indirizzo linguistico per inserirvi una parentesi tolkieniana. Per altro la manovra non sortì l’effetto che mi propongo io, perché invece di catturare l’interesse degli studenti e dei potenziali studiosi si confinò l’argomento Tolkien in una serie di seminari i cui esiti rimasero a uso e consumo diretto dell’ateneo, senza produrre nulla che si potesse diffondere al pubblico esterno. Quindi, dopo due anni e mezzo, su quel fronte siamo ancora al palo.
All’estero vi sono università come l’ateneo di Cardiff che organizzano corsi di studio dell’opera tolkieniana, vi è il Mythgard Institute che fa lo stesso indicendo corsi accademici online, vi è un convegno internazionale itinerante come Omentielva in cui studiosi, saggisti, membri del board dell’E.L.F. si confrontano pubblicamente con i partecipanti. In Italia, complice anche la situazione conflittuale in atto, siamo all’anno zero. Serve un piano di lungo respiro: bisogna costruire una base di conoscenza fatta di blog e di siti web che riprendano i contenuti delle risorse primarie disponibili, stanare gli appassionati che provengono dall’ambiente accademico e coinvolgerli in seminari, giornate di studio e appuntamenti in cui si può portare l’argomento “lingue tolkieniane” al pubblico (ma in modo strutturato; non quindi all’italiana, fatto tanto per farlo e/o per lustrare l’argenteria di casa, o peggio d’importazione, a dispetto degli “avversari sul campo” come qualcuno fa oggi).
Bisognerebbe cioè diffondere quest’ambito di studio tolkieniano, in modo da poterlo proporre anche a chi vi si accosta da appassionato prima che da studioso. E bisogna farlo riferendosi per prima cosa alle fonti primarie, non si può certo proporre un approccio all’evoluzione dell’elfico ignorando, o magari denigrando, ciò che viene dall’E.L.F. o da altri esperti che l’E.L.F. stessa di fatto accredita segnalandoli sui loro canali.
All’obiezione su che giovamento porterebbe questo sforzo, che apparentemente prende una direzione diversa da quella in cui gli studi tolkieniani italiani hanno preso il via e si sono avviati, rispondo: stiamo parlando sì di un’opera narrativa di gran pregio, ma che fu concepita e realizzata da un filologo.Tanto basta a rendere luminosa evidenza del fatto che l’analisi comparativa letteraria, pur importante, non può certo essere esaustiva e che il cuore intimo delle saghe di elfi, nani, hobbit e uomini della Terra di Mezzo rimane accessibile (giusta l’intuizione di un allora giovane studente oxoniense, ancora ignaro del segno profondo che avrebbe lasciato) attraverso la porta della cantina 1.
1 Il riferimento è alla cellar door citata nella risposta alla prima domanda, la cui traduzione è per l’appunto “porta della cantina”.