J.R.R. Tolkien e la fantascienza

di Emilio Patavini


Oggi, 16 settembre, arriva nelle sale un nuovo adattamento cinematografico di Dune di Frank Herbert. Quale occasione migliore per parlare del sottile legame tra Tolkien e la letteratura fantascientifica? Ovvero: Tolkien leggeva fantascienza? Cosa pensava di autori come H.G. Wells e Isaac Asimov? E di Dune di Frank Herbert? Fu influenzato da scrittori di fantascienza? A queste e a molte altre domande cercheremo di rispondere nel presente articolo.


Tolkien: scrittore di fantascienza?

La domanda non è così semplice come può sembrare. Certo, Tolkien è dai più definito il padre dell’high fantasy, e non uno scrittore di fantascienza.
Eppure, un lettore che, nel 1954, avesse acquistato la prima edizione inglese de La Compagnia dell’Anello, avrebbe trovato sul risvolto di copertina le seguenti parole di Naomi Mitchison, lettrice e amica di Tolkien nonché autrice di fantasy e fantascienza:

It’s really super science fiction

(“È davvero super fantascienza”)

D’altro canto, è innegabile l’influenza che il legendarium tolkieniano – Il Signore degli Anelli in primis – esercitò su intere generazioni di scrittori di fantascienza (e non solo): le opere di Tolkien, infatti, ammaliarono autori come Ursula K. Le Guin e Stephen King, George R.R. Martin, solo per citarne alcuni.

Pur non essendo uno scrittore di fantascienza, Tolkien scrisse anche fantascienza. Per essere più precisi, tentò di scrivere ben due opere basate sui viaggi nel tempo (uno dei topoi classici della fantascienza), entrambe incompiute e che non videro mai le stampe quando il loro autore era in vita. Tutto ebbe inizio con una sfida con C.S. Lewis, che Tolkien ricorda così:

Un giorno L[ewis] mi ha detto: “Tollers, c’è troppo poco di quello che ci piace davvero nelle storie. Temo che dovremo provare a scrivere qualcosa noi stessi”.

(Lettera 294)

Dopo essersi sfidati l’un l’altro a scrivere loro stessi «quello che ci piace davvero nelle storie» (cioè, secondo Verlyn Flieger, la fantascienza), Tolkien avrebbe scritto una storia sui viaggi nel tempo, mentre Lewis sui viaggi nello spazio. Il ben noto risultato di Lewis fu la Trilogia dello spazio, composta da Out of the Silent Planet (Lontano dal Pianeta Silenzioso, 1938), Perelandra (1938) e That Hideous Strength (Quell’orribile forza, 1945), e con protagonista il filologo Elwin Ransom, basato sulla figura dell’amico Tolkien. Diversamente, la scrittura di Tolkien sul viaggio nel tempo non fu altrettanto prolifica:

I miei sforzi, dopo alcuni capitoli promettenti, si sono prosciugati; era una strada troppo lunga per arrivare a quello che in realtà volevo fare: una nuova versione della leggenda di Atlantide. La scena finale sopravvive come La Caduta di Númenor.

(Lettera 294)

La storia cui Tolkien diede inizio, senza però concludere, non è altro che il frammento di The Lost Road (1937), pubblicato postumo in The Lost Road and Other Writings, quinto volume della History of Middle-earth. In questa storia, come sempre in Tolkien, l’elemento chiave sono i nomi, e come si potrà notare dalla sinossi fornita dal suo stesso autore, essa è strettamente connessa al resto del legendarium:

Il filo conduttore sarebbe stato il ripresentarsi di volta in volta in famiglie umane (come Durin fra i Nani) di un padre e un figlio chiamati con nomi che si possono interpretare come “amico della beatitudine” e “amico degli elfi”. Ormai non più compresi, si scopre alla fine che questi nomi si riferiscono alla situazione atlantidea-númenóreana e significano “uno che è leale ai Valar, contento della beatitudine e della prosperità nei limiti prescritti” e “uno che è leale all’amicizia con gli Alti Elfi”. Iniziava con un’affinità padre-figlio fra Edwin ed Elwin nel presente, e sarebbe dovuta andare all’indietro fino ai tempi leggendari passando per Eädwine e Ælfwine circa nel 918 d.C., per Audoino e Alboino nelle leggende longobarde […]. Nel mio racconto saremmo infine arrivati ad Amandil ed Elendil, capi del partito dei fedeli a Númenor quando questa cadde sotto il dominio di Sauron. Elendil “amico degli Elfi” fu il fondatore dei regni in esilio di Arnor e Gondor. Tuttavia il mio vero interesse era solo per la prima parte, l’Akallabêth o Atalantie (“Caduta” in númenóreano e in quenya), quindi ho messo tutto il materiale che avevo scritto sulle leggende di Númenor, inizialmente indipendenti, in relazione con la mitologia principale.

(Lettera 257, a Christopher Bretherton, 16 luglio 1964)

Il finale della storia gli era ben chiaro fin dall’inizio:

«doveva finire con la presenza del mio eroe all’inabissamento di Atlantide. Si sarebbe dovuta chiamare Númenor, la Terra dell’Ovest»

(Lettera 257)

Nel capitolo The Early History of the Legend del quinto volume della History, Christopher Tolkien si interroga sull’esistenza o meno di prove per la datazione della conversazione che portò alla stesura di Lontano dal Pianeta Silenzioso e The Lost Road, tuttavia appare evidente che durante tutto il processo di scrittura Tolkien e Lewis dovevano essersi scambiati pareri, giudizi e spunti, tanto che finirono per influenzarsi reciprocamente. Questo lo si può notare in almeno due casi. Nel primo, basta prendere in considerazione il protagonista del romanzo di Lewis e uno dei due componenti della coppia padre-figlio del presente in The Lost Road: entrambi si chiamano Elwin. Il secondo caso riguarda un altro nome, che dovrebbe suonare familiare a tutti gli appassionati tolkieniani: Númenor, la Terra dell’Ovest. In Quell’orribile forza, terzo romanzo della Trilogia dello spazio di C.S. Lewis, troviamo un’eco della versione tolkieniana del mito di Atlantide nel nome Numinor. Tolkien spiega che tale ortografia «si deve al fatto che [Lewis] ha sentito il nome, ma non l’ha letto» (Lettera 169), per via della pronuncia inglese di /e/. Ed esso, aggiunge Tolkien, «era inteso come un riferimento alla mia opera e ad altre mie leggende (inedite), che aveva ascoltato» (Lettera 227).

C’è ancora un altro elemento da analizzare, prima di passare all’altra opera fantascientifica scritta da Tolkien. In A Question of Time: J.R.R. Tolkien’s Road to Faërie, la studiosa Verlyn Flieger scrive che a offrire a Tolkien «il meccanismo ideale per compiere un viaggio nel tempo senza magie o macchinari», mentre lavorava a The Lost Road, fu un libro pubblicato nel 1927: An Experiment with Time di J.W. Dunne, che Tolkien possedeva nell’edizione Faber and Faber del 1934. Sempre nel suo saggio, Flieger aggiunge che la copia posseduta da Tolkien «contiene le sue annotazioni e i suoi commenti inseriti tra le pagine, scritti nel corso della lettura, sulle idee di Dunne [sul tempo e i sogni] e sulla teoria che vi ricavò … [Tolkien] non era sempre in completo accordo con Dunne».

In questo libro, Dunne sostiene di poter viaggiare nel tempo grazie ai propri sogni premonitori, e non per mezzo di un’invenzione, come ne La macchina del tempo di H.G. Wells. Appare dunque evidente come, in quegli anni, le idee di Dunne circolassero nel gruppo degli Inklings, anche alla luce del fatto che Lewis produsse un romanzo incompiuto, The Dark Tower (1939), fortemente influenzato dalle teorie di questo autore.

Nel 1944, in un periodo di pausa dalla stesura di ciò che sarebbe diventato Le Due Torri, Tolkien si dedicò a un nuovo progetto:

«[Lewis] Sta architettando il suo quarto (o quinto) romanzo, e sembra probabile che si scontri con il mio (il mio terzo ancora vagamente progettato). Ultimamente mi stanno venendo un sacco di nuove idee sulla preistoria (tramite Beowulf e altre fonti sulle quali potrei avere scritto) e vorrei inserirle nella storia sul viaggio nel tempo che ho iniziato e da molto tempo accantonato».

(Lettera 92)

Tolkien, con quel suo «terzo [romanzo] ancora vagamente progettato», si riferisce con ogni probabilità a The Notion Club Papers (da lui intitolato The Notion Club Papers: Beyond Lewis or Out of the Talkative Planet. Being a fragment of an apocryphal Inklings’ Saga, made by some imitator at some time in the 1980s) e alla sua intenzione di rimettere mano all’abbozzo che era alla base di The Lost Road. Anche in questo secondo tentativo, la storia sul viaggio nel tempo si intreccia al serialismo e alle teorie oniriche di Dunne. La storia è ambientata nel futuro, negli anni ‘80 (mentre si dice che i frammenti sono stati scoperti a Oxford nel 2012 dal curatore fittizio delle carte), e racconta delle discussioni di un gruppo di accademici, il “Notion Club”, chiaramente modellato sul circolo degli Inklings (da cui l’idea di una apocryphal Inklings’ Saga). La storia è divisa in due parti: The Ramblings of Michael Ramer: Out of the Talkative Planet (vedi la somiglianza con il titolo del primo romanzo della Trilogia dello spazio di C.S. Lewis) e The Strange Case of Arundel Lowdham, e include anche il Lowdham’s Report on the Adunaic Language.

«[…] In due settimane di relativo tempo libero verso il Natale scorso ho scritto tre capitoli di un altro libro, che sposta in un altro contesto e ambientazione quel poco che c’era di valido nell’incompiuto Lost Road (che una volta ho avuto l’impudenza di proporle: spero sia stato dimenticato), e altre cose. Speravo di finirlo di getto, ma dopo Natale la mia salute è peggiorata. Piuttosto sciocco menzionarlo, prima che sia finito. Ma sto mettendo Il Signore degli Anelli, il seguito dello Hobbit, prima di tutto il resto, tranne i doveri ai quali non mi posso sottrarre».

(Lettera 105)

La fantascienza letta da Tolkien

Per parlare della narrativa fantascientifica di Tolkien abbiamo già nominato scrittori di fantascienza come Mitchison e Lewis, ma in che misura Tolkien era un lettore di fantascienza? Grazie al contributo di Tolkien’s Library di Oronzo Cilli, sappiamo che Tolkien lesse molta fantascienza, soprattutto inglese. Anche Tom Shippey, nella sua Prefazione a questo saggio, si dice sorpreso per i molti titoli fantascientifici negli elenchi dei libri letti, posseduti, citati o presi in prestito da Tolkien:

La più inaspettata via nella mente di Tolkien rivelata dal libro di Oronzo è forse la letteratura popolare contemporanea che Tolkien leggeva. Era noto che Tolkien (come il suo amico C.S. Lewis) si interessava di fantascienza, ma ce n’è molta più di quanto si potrebbe pensare. Non solo Tolkien menziona alcuni dei primi classici britannici di scientific romance, una specie di proto-fantascienza (Lindsay, O’Neill, Stapledon, e il grande punto di svolta per il genere, H.G. Wells); non solo scrittori britannici di fantasy, volti familiari come Dunsany ed Eddison; ma anche molti scrittori di fantascienza o fantasy commerciale del XX secolo, come John Christopher, Frank Herbert, Sterling Lanier, Lyon Sprague de Camp.

Il primo scrittore di fantascienza citato da Shippey è David Lindsay, autore britannico di un unico romanzo, A Voyage to Arcturus (1920), primo esemplare della fantascienza filosofica, sottogenere che nella seconda metà del Novecento farà capo allo scrittore polacco Stanisław Lem, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. C.S. Lewis, in On Stories and Other Essays on Literature, definirà questo romanzo «un appassionato viaggio spirituale», mentre Tolkien, oltre a citarlo in The Notion Club Papers, scrive in una sua lettera a Stanley Unwin datata 4 marzo 1938 di  aver letto avidamente Voyage to Arcturtus, che descrive con queste parole:

Nessuno potrebbe leggerlo solo come un thriller e senza qualche interesse per la filosofia, la religione e la morale.

Nella stessa Lettera 26, Tolkien si riferisce alla sua grande passione per i resoconti di viaggi fittizi in mondi immaginari, spingendosi a dire: «ho apprezzato perfino Land under England (anche se è un esempio debole, e in molti punti mi è sembrato sgradevole)». Qui Tolkien cita un’opera del 1935 di Joseph O’Neill, romanzo di fantascienza che narra di una quest nelle viscere della terra in cui il protagonista scopre un mondo perduto, una civiltà sotterranea dove i discendenti degli Antichi Romani vivono sotto il terrore di un totalitarismo reso ancora più spietato dal controllo telepatico. Come nota John Garth, ne I Mondi di J.R.R. Tolkien: «Tolkien mise per la prima volta un ragno gigantesco sottoterra, nella Tana di Shelob, dopo aver “apprezzato” un’altra storia di fantascienza, Land Under England di Joseph O’Neill (1935). L’eroe di O’Neill finisce nel sottosuolo e si imbatte in un ragno mostruoso “con due grosse masse rigonfie simili a borse … e molte gambe trampolesche” che emana un odore fetido e produce una tela invischiante “sbavando e con un riso soffocato”».

Nel suo già citato romanzo incompiuto The Notion Club Papers, in una discussione sulla fantascienza, Ramer cita Last Men in London – romanzo del 1932, che l’autore Olaf Stapledon scrisse attingendo ai propri ricordi dell’esperienza bellica – come fonte di quella che lui chiama «telepathic notion», per mezzo della quale è possibile viaggiare in altri mondi. Secondo Dale Nelson, «è possibile che Tolkien abbia letto una parte del libro, ma non tutto». Stando a Tolkien’s Library, Tolkien lesse anche la prima e più famosa opera narrativa di Stapledon, Last and First Men (tr. it. Infinito). Olaf Stapledon, pensatore atipico nella tradizione della fantascienza britannica, di cui Jorge Luis Borges elogia la «sua quasi illimitata immaginazione», pubblicò quest’ultimo romanzo nel 1930: è la “storia futura”, l’ascesa e la caduta di ben diciotto razze umane che si evolvono sino ad assurgere al rango di semidei in un arco di tempo quasi infinito, di due milioni di anni. Scrive Giuseppe Lippi, curatore dell’edizione italiana di Last and First Men:

Stapledon appartiene (non per indole o ideali comuni, ma per il tipo di vasta operazione da lui tentata nell’ambito della narrativa) a quel gruppo di autori inglesi che, negli stessi anni, affrontarono da un punto di vista mitopoietico i problemi della loro condizione intellettuale e artistica: così non sembri azzardato avvicinarlo a Tolkien, Clive Lewis, Charles Williams e il loro erede Mervyn Peake, che cominciò a scrivere pochi anni dopo la morte di Stapledon.

(Olaf Stapledon, Infinito, Mondadori, Milano 1990, pp. 9-10)

Come non citare, tra gli autori britannici di questo genere, la fantascienza di Herbert George Wells, che, come vedremo, ha un posto di rilievo anche nello studio delle possibili fonti di ispirazione per Tolkien. Dale Nelson, alla voce “Literary Influences, Nineteenth and Twentieth Centuries” della J.R.R. Tolkien Encyclopedia, suggerisce che i Morlock de La macchina del tempo (1895)potrebbero avere ispirato la descrizione del personaggio di Gollum, o che L’isola del dottor Moreau potrebbe aver fornito una base per la concezione dell’origine degli Orchi, mentre per John Garth, «le profondità di Isengard, invece, con le macchine e gli Uruk-hai – più umani e spaventosi dei goblin – devono più agli “oscuri Morlock che badano ai loro macchinari” della Macchina del tempo di H.G. Wells». Ma andiamo con ordine. Sappiamo che, dei molti romanzi e racconti scritti da Wells, Tolkien lesse: The First Men in the Moon (I primi uomini sulla Luna, 1901), The History of Mr. Polly (1910), The Plattner Story, and Others (1897) e The Time Machine (La macchina del tempo, 1895). Prove di quest’ultima lettura sono disseminate in vari scritti tolkieniani, che spaziano dalla saggistica alla narrativa, passando per il suo epistolario: troviamo riferimenti a questo romanzo in The Notion Club Papers, nella Lettera 109 a Sir Stanley Unwin, ma soprattutto nel saggio Sulle Fiabe, in cui Tolkien invita a evadere «dall’orrore morlockiano delle fabbriche» e scrive:

I racconti di Gulliver non hanno più diritto di entrare fra le fiabe delle fandonie del Barone di Munchhausen; o, diciamo, di The First Men in the Moon [I Primi uomini sulla Luna] o di The Time-Machine [La Macchina del Tempo]. Certo per gli Eloi e i Morlock potrebbero esserci pretese più fondate che non per i lillipuziani. […] Gli Eloi e i Morlock vivono lontanissimi, in un abisso di tempo così profondo da produrre un incantesimo su di loro […] Questa magia della distanza, in special modo della distanza nel tempo, è indebolita solamente dall’assurda e incredibile macchina del tempo.

(segue a p. 2)