Terreni intessuti d’alberi
In questo capitolo potrete naturalmente trovare la celebre radura di cicuta nei pressi di Roos, East Yorkshire, che Garth identifica con Dents Garth: continuano le influenze della convalescenza nell’East Riding. In particolare, questa radura è ricordata attraverso le parole commosse di Tolkien, colpito dalla morte della moglie Edith:
Io non ho mai chiamato Edith Lúthien, ma ella era la sorgente della storia che col tempo divenne la parte principale del Silmarillion. Fu concepita per la prima volta in una piccola radura in un bosco piena di cicute a Roos nello Yorkshire (dove per breve tempo fui al comando di un avamposto del presidio sullo Humber nel 1917, ed ella per un po’ riuscì ad abitare con me). A quei tempi i capelli erano corvini, la sua pelle chiara, i suoi occhi più luminosi di quanto tu li abbia mai visti, e sapeva cantare, e danzare. Ma la storia è finita male, e sono rimasto io, e io non posso implorare l’inesorabile Mandos1.
Ma non è la storia di Beren e Lúthien che voglio approfondire. La mia prima considerazione su questo capitolo riguarda il termine flet, l’abitazione elfica tipica di Lothlórien che Tolkien, nel sesto capitolo del secondo libro de La Compagnia dell’Anello, descrive così: «I rami dell’albero crescevano quasi perpendicolari al tronco, per poi slanciarsi verso l’alto; ma verso la cima, il fusto si divideva in una corona di diramazioni fra le quali era stata costruita una piattaforma in legno, che a quei tempi veniva chiamata flet: il nome elfico era però talan. Vi si giungeva tramite un foro circolare aperto nel centro, attraverso il quale passava la scala»2. Garth scrive che «la piattaforma in legno o flet di Galadriel e Celeborn, con i tronchi nel mezzo, ricorda la sala dei Volsunghi costruita intorno a un albero, il Barnstokkr»3. Si tratta certamente di un suggestivo collegamento con il mondo delle saghe norrene che Tolkien ben conosceva; personalmente mi ha fatto più pensare alla parola flet in sé, che nella finzione letteraria tolkieniana è un vocabolo Ovestron, ma nelle lingue reali è un termine anglosassone legato alla sala del banchetto, un elemento fondamentale di convivialità nel mondo germanico.
Nel Beowulf, la parola flet compare quindici volte. A proposito del significato di questo termine, scrive Ludovica Koch in una nota alla sua traduzione del grande poema epico anglosassone: «Flet è propriamente la zona centrale del pavimento, con le panche per bere, e per metonimia la sala»4. Infatti anche il Bosworth-Toller’s Anglo-Saxon Dictionary, alla voce flet, riporta i significati di «the ground, floor of a house» da cui «a dwelling, habitation, house, cottage, hall»; nel dialetto scozzese flet, flett significa “casa”. Allo stesso modo lo troviamo in medio inglese: in A Middle English Vocabulary (1922), prima opera pubblicata da Tolkien, leggiamo: «Flett, n. floor, XVII 223. [OE. Flett.]»5. Tra le varie attestazioni in testi scritti in medio inglese, flet compare sei volte nel Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che Tolkien tradusse in modo differente in funzione dell’allitterazione.
La seconda osservazione si riferisce a un’altra citazione di Garth, tratta dal paragrafo precedente: «[…] le radici letterarie del Doriath si estendono ben oltre i ricordi personali, dalle storie arturiane ad altri romanzi cavallereschi medievali, sino al sottosuolo delle leggende celtiche. Nel reame delle foreste elfiche, gli stranieri si smarriscono nell’etereo suono dei corni da caccia tra le chiome, come nel Sir Gawain e il Cavaliere Verde, in Sir Orfeo e nel racconto di Pwyll figlio di Pryderi, parte del Mabinogion gallese»6. Garth qui menziona il cosiddetto “Primo Ramo” del Mabinogion, che vede come protagonista Pwyll, principe di Dyvet.
Il racconto si apre con una battuta di caccia a Glynn Cuch, dove possiamo leggere: «Il suo corno [di Pwyll] suonò l’adunata per la caccia; egli si slanciò dietro ai cani e presto perse i compagni. Prestava orecchio ai latrati dei propri cani, e così udì il diverso abbaiare di un’altra muta che avanzava incontro alla sua. In quel momento, ai suoi occhi si offriva la vista di una radura nel bosco, priva di ogni asperità. I cani comparvero sul limitare della radura ed egli scorse un cervo in fuga davanti all’altra muta. Giunta nel centro della radura, la muta che inseguiva il cervo lo raggiunse e lo abbatté»7. L’altra muta, composta da cani da caccia «di un bianco splendente e luminoso»8, appartiene ad Arawn, re di Annwn, l’Oltretomba gallese.
Questo episodio ricorda alcuni passaggi de Lo Hobbit, ambientati a Bosco Atro, in inglese Mirkwood, un calco dal norreno Myrkvið utilizzato in precedenza da William Morris.
Nel Capitolo VIII (Mosche e ragni), la compagnia poteva udire «un fioco soffiare di corni nel bosco e […] un rumore come di cani che abbaiassero in lontananza», il rumore di una «grande caccia» al cervo che poco prima Thorin aveva colpito, e ai «cervi bianchi»9, che di lì a poco appaiono senza che i nani li riescano a colpire. Scrive Douglas A. Anderson in The Annotated Hobbit: «Nella tradizione celtica, incontri con animali bianchi (cervi bianchi in particolare) prefigurano di solito un incontro con esseri provenienti dall’Oltretomba (Faërie)»10, proprio come l’incontro di Pwyll con niente meno che il signore dell’Ade in persona.
Ricordiamo, in merito al rapporto tra Tolkien e gli studi celtici, il consiglio di Joseph Wright, Diebold Professor of Comparative Philology e suo mentore a Oxford: «Occupati del celtico, ragazzo mio; è lì che si fanno i soldi (go in for Celtic, lad: there’s money in it)»11. Tolkien divenne un’autorità nel campo della filologia germanica, ma spese tutti i soldi dell’unico premio mai vinto a Oxford per comprare la Welsh Grammar (1913) di Sir John Morris-Jones, su cui si mise a studiare gallese, e questa lingua ebbe un notevole influsso sul Sindarin. Inoltre, Tolkien insegnò gallese medievale a Leeds, e, come è stato riportato da Carl Phelpstead in Tolkien and Wales: Language, Literature and Identity (2011), operò una traduzione, purtroppo incompiuta, proprio dell’episodio di Pwyll, il primo dei Quattro Rami del Mabinogion (Bodleian A.18/1.135-153).
In conclusione, Garth scrive a p. 120: «Sia a Lothlórien che a Kortirion Tolkien vede le piante come alberi di navi. Lothlórien è “una nave rifulgente dall’alberatura incantata”. In estate gli olmi di Kortirion sono “alberi di nave possenti” a vele spiegate; ma in inverno sono “vascelli vaghi e lenti alla deriva”»12 e ne fa derivare l’origine dalla «lunga e stretta isoletta nell’Avon, sotto il castello di Warwick, in cui il paesaggista Capability Brown fece piantare degli alberi nel XVIII secolo»13. A mio avviso, l’origine di questo paragone va cercata nelle kenningar, le figure retoriche tipiche della poesia germanica. “Albero del mare” è una kenning frequente per “nave”: basti pensare al Víkingarvísur di Sigvatr Þórðarson, dove la nave è chiamata langr sæmeiðr “il lungo albero-del mare”. Oppure nel Beowulf troviamo sund-wudu “legno-del-mare” (vv. 208, 1906) e sǣ-wudu “legno-del-mare” (v. 226) a indicare la nave di legno su cui Beowulf e i suoi compagni stavano viaggiando dalla Svezia alla volta del regno dei Danesi di Hroðgar.
Note
1 J. R. R. Tolkien, H. Carpenter (a cura di), Lettere 1914/1973, cit., pp. 666-667
2 J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2014, p. 386
3 J. Garth, I Mondi di J. R. R. Tolkien. I luoghi che hanno ispirato la Terra di Mezzo, cit., p. 118
4 L. Koch (a cura di), Beowulf, Einaudi, Torino 1987, p. 87
5 J. R. R. Tolkien, A Middle English Vocabulary. Designed for use with Sisam’s Fourteenth Century Verse & Prose, Oxford at the Clarendon Press, 1922
6 J. Garth, I Mondi di J. R. R. Tolkien. I luoghi che hanno ispirato la Terra di Mezzo, cit., p. 118
7 G. Agrati – M. L. Magini (a cura di), I racconti gallesi del Mabinogion, Mondadori, Milano 1982, p. 7
8 Ibidem
9 J. R. R. Tolkien, Lo Hobbit o la Riconquista del Tesoro, Adelphi, Milano 2013, trad. di E. Jeronimidis Conte, p. 168
10 J. R. R. Tolkien, D. A. Anderson (ed.), The Annotated Hobbit. Revised and expanded edition, cit., p. 200 (trad. mia)
11 J. R. R. Tolkien, C. Tolkien (a cura di), Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004, p. 240
12 J. Garth, I Mondi di J. R. R. Tolkien. I luoghi che hanno ispirato la Terra di Mezzo, cit., p. 120
13 Ibidem
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