Quando Tolkien abbracciava l’Italia e una certa Italia rifiutava Tolkien

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Esce oggi Tolkien e l’Italia di Oronzo Cilli, un libro che ha impegnato l’autore per più di un lustro sulle orme dello scrittore di Il Signore degli Anelli in Italia, nonché lungo il percorso dell’opera stessa tra rifiuti illustri di grandi casi editrici, grandi azzardi di editori più piccoli fino ad anni recenti, passando per il vortice della radicalizzazione politica di fine anni ’70, che lasciò più segni nella memoria collettiva di quanti effettivamente riguardavano l’opera. 

È il caso di dire “Benarrivato!”, o meglio ancora “Ben tornato!”. Perché è un libro che ha il sapore del ritorno a casa quello che Il Cerchio pubblica oggi a firma di Oronzo Cilli, collezionista nel senso più lodevolmente tolkieniano del termine che prosegue una tradizione internazionale così feconda per la ricerca su J.R.R. Tolkien e la sua opera. Un collezionista cioè uno studioso. Uno studioso per cui un volume con una firma sospetta o un paragrafo di un articolo di giornale che lascia un’inedita estemporanea citazione può rivelarsi una traccia, che diventa l’imbocco di un sentiero verso una destinazione spesso troppo lontana per essere intravista. Eppure, se la traccia è ben fiutata, il lungo il sentiero si trovano indicazioni sempre più chiare che alla fine ci sarà qualcosa per cui iniziare il cammino sarà valso lo sforzo.

Cilli il fiuto del collezionista-studioso l’ha allenato bene, ne aveva già dato prova con le sue pubblicazioni precedenti, una delle quali, dopo ampia risonanza internazionale, ha ottenuto il non indifferente primato italiano nell’esser citata perfino nella curatela originale di un’opera di Tolkien. Oggi non solo prove, ma un’intera storiografia Cilli sottopone al lettore italiano, per gran parte inedita o sotterrata da spessi strati di valutazioni posteriori, di rado non disinteressate. Tolkien e l’Italia porta alla luce la storia dei rapporti tra l’inventore della Terra-di-Mezzo e la nostra terra, una fitta e completa cronaca di documenti qui estratti per la prima volta da archivi editoriali inglesi e italiani, preceduta da un fine setaccio di occorrenze accademiche e proseguita nel campo giornalistico in un’epoca in cui ogni merito artistico pareva dover essere subordinato ad un intento politico. È questa la nostra storia di Tolkien, ci piaccia o no, ma in Tolkien e l’Italia c’è anche la sua storia italiana, quella dei rapporti personali e biografici del professore di Oxford con il belpaese. Nel libro sono tradotti testi di straordinario valore (in assoluto e specialmente per il lettore italiano) quali il Giornale d’Italia, il diario di viaggio che Tolkien tenne in occasione della sua visita a Venezia ed Assisi nell’estate 1955 (conservato tra i Tolkien Papers alla Bodleian Library) e i resoconti delle riunioni della Oxford Dante Society che lui e C.S. Lewis frequentarono dal 1945. Testi che da soli valgono l’esultanza di ogni lettore italiano e cui il presente libro ha offerto una collocazione degna e sapiente.

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Tolkien e l’Italia scoperta, casa a cui tornare

Il diario di viaggio è una collezione di memorie che chiunque abbia visitato quei luoghi non può che riscoprire vicine alla propria, da scene di pittoresca e divertente esplorazione turistica a ricordi in cui la coscienza di Tolkien chiama ad un ammirato cospetto. Tra le sue pagine lo si vede fiancheggiare i canali di Venezia, scendere e risalire le petrose scale di Assisi, affrettarsi alle stazioni solo per scoprire quanto già allora fosse inefficiente il nostro servizio ferroviario, perdendo l’occasione di gettare lo sguardo su Milano e Firenze e venendo ripagato solo in parte dai paesaggi della penisola, gustare cene “magnifiche” nelle trattorie di Venezia – con tutta la sorpresa che un Inglese può e poteva averne – e pasti decisamente più essenziali dalle Collatine di Assisi. Commuoversi per una celebrazione liturgica in forma cantata e infastidirsi per l’interminabile flusso di incuranti visitatori che la disturba, assistere ad una rappresentazione del Rigoletto con i protagonisti della Fenice (dopo averlo quasi mancato) o destarsi la mattina col concerto campanario della patria francescana e veder sfilare le processioni per San Rufino in costumi medievali allo squillante suono di trombe. Nel tripudio del manierismo veneziano preferì Tintoretto a Tiziano e Giorgione, ma fu tra i mosaici bizantini della Basilica di Santa Maria Assunta di Torcello, in un angolo riparato da tramestio turistico, che Tolkien avvertì per la prima volta di essere legato all’Italia fin nelle proprie radici:

«… per la prima volta ebbi la sensazione che mi tormentò per il resto del mio breve viaggio in Italia: di essere giunto nel cuore della Cristianità; un esule che ritorna a casa dai confini e dalle province più remote, o almeno giunge alla casa dei suoi padri. Questo aveva poco a che fare con l’arte o la bellezza formale. Trascurata o rotta, adorna o celata […] percepii un curioso bagliore di una vita latente e di Carità…».

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7 agosto 1955: J. R. R. Tolkien in posa nel giardino del Monastero di santa Colette, verso il nord della città, con alle spalle, lontano sulla destra, la Rocca Maggiore. Dall’archivio privato di Priscilla Tolkien. Fotografia donata a padre Guglielmo Spirito nel 2007. Ricerca dei luoghi a cura di Oronzo Cilli. Immagine gentilmente concessa per la recensione. Severamente vietata la riproduzione.

Un pellegrino, anziché un turista, che pochi giorni dopo calca le orme di San Francesco e Santa Chiara. Ad accompagnarlo in questo “ritorno a casa” c’era la figlia Priscilla e, per parte del suo soggiorno a Venezia, anche il figlio Christopher e la sua prima moglie Faith. Proprio a Christopher si rivolge a conclusione del suo viaggio per confessare la seconda origine del suo nuovo affetto per la nostra terra, nei termini che il figlio poteva ben comprendere.

«Sono innamorato dell’italiano, e mi sento abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo! Dobbiamo continuare a studiarlo.» [Lettera del 15 agosto 1955]

Cilli non si limita a riproporre in Italiano gli stralci del diario dalla J.R.R. Tolkien Companion & Guide di Wayne Hammond e Christina Scull, ma lascia il suo lavoro di ricerca alle note, offrendo al lettore un’esperienza diretta, quasi epistolare, senza interferenze. È l’autore ad identificare alcune tappe del soggiorno italiano e si occupa lui di fornire le informazioni a contorno di ogni episodio; per Assisi è assistito da Padre Guglielmo Spirito, già autore di una ricerca fondamentale sul periodo assisano, dal cui archivio privato vengono citate numerose lettere della figlia di Tolkien, che confermano la densa catena di momenti vivamente impressi in entrambi. Il libro contiene anche un gioiello finora rimasto inaccessibile se non in rare occasioni, poiché vi sono riprodotte le fotografie scattate durante quel viaggio, donate da Priscilla a Padre Spirito.

Tutto questo non è che un capitolo di Tolkien e l’Italia, una trentina delle oltre 400 pagine di cui si compone. Sebbene queste siano pagine di unico rilievo biografico e non solo, il libro intero riesce a conservare il metodo essenziale di esposizione e la sua fortuna, nutrendosi di una mole impressionante di documenti che Cilli dopo aver rinvenuto fa parlare da soli come facendosi da parte, introducendoli nel loro contesto e sottolineando le questioni che sollevano. Un simile apparato documentale non può che imbarazzare un recensore, il quale ha la necessità di selezionare solo alcuni passaggi per non rubare la scoperta al lettore.

Tolkien e l’Italia che lo rifiutò,
perché troppo “nordico”?

Di notevole interesse sono i gruppi che testimoniano i primi contatti finalizzati alla pubblicazione delle opere di Tolkien in Italia. Tolkien e l’Italia racconta le due occasioni che Mondadori rifiutò: quella del 1962, per la prima volta menzionata in un articolo di Massimo Novelli su La Repubblica del 26 ottobre 2010, è il punto di partenza dell’indagine di Cilli, a seguito della quale si rivela essere soltanto la seconda. Emerge così, dagli archivi Mondadori e Allen&Unwin, la dura realtà che l’Italia avrebbe potuto essere il primo paese a godere di una traduzione di Il Signore degli Anelli.

Così come la Compagnia dell’Anello lasciava Gran Burrone il 25 dicembre, il suo libro eponimo arrivava insieme a Le Due Torri a Milano, a casa Mondadori attorno al Natale del 1954, a pochi mesi dalla sua pubblicazione, perché fosse valutato, anticipato dai soli pareri positivi della critica anglofona che Allen&Unwin aveva inoltrato. Stupiscono i pareri interni Mondadori, affidati a Ruth Domino Tassoni, per quanto colgono nel segno in termini di riferimenti alle fonti mitologiche e folcloriche, sull’invenzione, con importanti spunti anche su cristianesimo e manicheismo, per un risultato che «riprende una delle più antiche funzioni della letteratura: raccontare meraviglie», racconto le cui «vicende dovrebbero venir recitate in grandi sale, con pioggia e vento fuori, e possibilità di lungo ozio. Come nelle antiche saghe, la storia si diffonde, si spezza e riprende in intricati episodi, un motivo conduce ad un secondo e ad un terzo, e dentro una vicenda nasce una nuova vicenda e dentro questa fioriscono canti e poesie». Nemmeno paragoni letterari bizzarri intaccano un apprezzamento sentito ed edotto, né «un giudizio, o un pregiudizio, moderno circa i romanzi […] che» ammette, si «dovrebbe lasciar da parte nell’accostarsi all’opera di Tolkien». Come può dunque campeggiare un gigantesco NO in cima ai pareri? Anche stavolta la lettrice di Mondadori si dimostra anticipatrice, ripetendosi nella conclusione sulle due prime parti:

«Il libro […] può avere favorevole accoglienza o completo insuccesso; per un editore cui preme un sicuro guadagno, è certo un rischio. […] Alcuni lettori apprezzeranno il romanzo come un piatto raro e squisito, altri, forse la maggioranza, arricceranno il naso, cibo esotico come cinesi nidi di rondine».

A marzo Mondadori comunicava il rifiuto dei diritti di traduzione dell’opera all’editore inglese, considerata inadatta per i lettori italiani o i lettori impreparati per essa. Contemporaneamente si concludeva l’accordo per la prima traduzione estera in Olanda. Tolkien avrebbe potuto esser perfino preceduto dalla sua opera in Italia; invece quando nel 1966 lui e la moglie passavano in crociera dinanzi all’incandescente Stromboli, ancora non c’erano trattative in corso, perché 4 anni prima Mondadori l’aveva bocciato una seconda volta. Nel 1962 infatti nomi ancora più importanti entrano nella vicenda Tolkien, autori come Elio Vittorini e Vittorio Sereni: dopo un parere negativo della divisione ragazzi (in cui apparentemente il libro era finito accidentalmente) in una trattativa stavolta iniziata dalla stessa Mondadori, la direttrice Cin Calabi aveva incontrato l’editore di Tolkien Stanley Unwin a settembre a Francoforte ed essendosi vista confermare il successo angloamericano e già internazionale di Il Signore degli Anelli premeva per una nuova valutazione.

Il pregiudizio modernista autodenunciato dalla Domino Tassoni suona come un monito inascoltato nell’approfondire le tappe successive della vicenda editoriale, un accorgimento non tenuto in conto, nonostante i lettori deputati alleghino i suoi pareri ai propri commenti. O meglio, viceversa, vista la brevità di questi secondi. Sia il traduttore Attilio Landi che Vittorini concordarono che il tentativo di inventare una mitologia artificiale non fosse riuscito e di poco o nessun interesse, rispettivamente parlando di «sfruttare meccanicamente» e «rimasticare» patrimoni mitologici e folclorici che soli possono conferire un qualche valore alla «favola» di Tolkien o perché il successo di una simile operazione «richiederebbe la forza di un vero e proprio genio (che Tolkien dà prova di non essere)». Ma la falsariga della storia nibelungica che ritengono deprimere la mitologia naturale non è l’unico indizio e si può ben concordare con Cilli che i documenti parlino da soli. Se Landi scrive frasi che fanno dubitare che il libro sia stato davvero letto («Gli uomini non compaiono; in loro vece solo l’antropomorfico»), si provi a confrontare con lo stralcio citato da Domino Tassoni sopra questo commento:

«Prolungare per oltre 1.200 pagine la narrazione dei casi strani e avventurosi accaduti ad alcuni degli hobbit in questione e ai loro [?] magici anelli […] diventa quindi […] operazione forzata, non originale con esiti banali e farraginosi. È il caso di questa storia, pletorica di avventure incastrate l’una dentro l’altra, di descrizioni minuziose e lunghissime e, in generale, di una ricerca realistica dello attendibile e del verosimile veramente mortificanti, specie per un lettore ben predisposto ad aprire gli occhi della fantasia».

Per chiudere che non andrebbe consigliato a nessuno in nessuna fascia d’età, almeno in Italia. Per Vittorini, la storia era inoltre carente della «convalida di un’attualità (cioè che il libro implicasse la metafora di qualche attualità)». Ovvero, l’esatto opposto del motivo – altrettanto sbilanciato – per cui era già avversato all’estero e per cui lo sarà  in Italia. Vittorini e Sereni lasciavano aperta la possibilità, secondo il suggerimento di Allen&Unwin, di pubblicarlo un volume alla volta e valutare il prosieguo poi, ma solo per circostanza. E altrettanto di circostanza è la rassegnata definitiva risposta di Cin Calabi all’editore inglese che motiva il rifiuto perché l’autore sarebbe «troppo “nordico”». Squisitamente ironico è allora l’accostamento che Cilli fa a conclusione della trafila, ricordando una dichiarazione di Orio Peduzzi in cui tenta di spiegare la complessità delle scelte di Mondadori (pur comprensibili, verissimo, dice Cilli): nel 1978 Mondadori decise per «La spada di Shannara di Terry Brooks, poiché questo genere più o meno va». L’originale, ormai, era preso.

Tolkien e l’Italia che lo volle, che lo contestò e che lo contese

La ricerca di Tolkien e l’Italia è lungi dall’esser esaurita. L’autore prosegue nel raccontare con notevole dovizia di particolari (e decine di nuovi documenti) come dove Mondadori non ebbe coraggio, ce lo mise Mario Ubaldini con Astrolabio nel 1967, uscendo dal settore di riferimento e affidando una traduzione di quella complessità ad una giovane studentessa di 17 anni (traduzione che Tolkien mostrò di apprezzare), la principessa Vittoria Alliata di Villafranca. Nella sua analisi Cilli parte dallo scenario internazionale delle traduzioni eseguite fino a quel momento, riportando anche le molte e varie opinioni di Tolkien in merito e altri documenti dagli archivi di Allen&Unwin (ora all’Università di Reading) e, appunto, di Astrolabio. Si viene così a sapere che alla traduttrice pervenne davvero la Nomenclature of the Lord of the Rings che Tolkien aveva preparato pochi mesi prima come guida alla traduzioni germaniche (indicata qui come Commento) e nella sua attenta catalogazione delle varianti testuali dell’opera originale Cilli identifica l’esatta edizione (2a) e la stampa di The Lord of the Rings utilizzata per la traduzione.

La copertina di La Compagnia dell’Anello di Astrolabio, dalla copia di Oronzo Cilli © Tolkieniano Collection.

Tristemente non ripagato dalla meritata fortuna, vien spontaneo tifare a dispetto della storia per quell’editore romano che mise tutto sé stesso nella promozione del primo (ed unico) volume stampato e arrivato nelle librerie nel dicembre del 1967, La Compagnia dell’Anello. Un editore che in parte aveva capito cosa aveva tra le mani:«Forse bisogna creare un nuovo genere del tipo fanta e dopo la fantascienza parlare di fantaleggenda, o fantamitologia». Tolkien era arrivato finalmente in Italia e nessuno se ne accorgeva, salvo chi lo stava già apprezzando in lingua originale. Anglisti quali Gabriele Baldini e Carlo Pagetti capitanavano le numerose recensioni positive e riferimenti degli appassionati di fantascienza e fantastico come Gianfranco de Turris (che di Tolkien e l’Italia firma l’Introduzione) si chiedevano se l’accoglienza italiana sarebbe stata favorevole come l’opera richiedeva. Fu invece pessima, al punto che Ubaldini offrì ad Alfredo Cattabiani, nuovo direttore editoriale di Rusconi, alla sola condizione di ripagarne la traduzione. La proposta alla neo-libraria e vulcanica Rusconi di fine anni ’60 inaugura un nuovo capitolo, con nuovi personaggi – Quirino Principe, Elémire Zolla che già conosceva Tolkien e l’illustratore Piero Crida – che convincono Cattabiani che a sua volta dovrà convincere Emilio Rusconi a tentare di ribaltare il fallimento di Astrolabio. Rusconi permise sì il successo italiano di Il Signore degli Anelli ma dalla casa editrice deriverà anche un’ondata di contestazione da un agguerrito fronte intellettuale che, in ultimo è l’origine della sua nomea politica.

Cilli si cimenta nel riordinare la successione storica degli eventi. Di particolare interesse sono i suoi appunti dell’autore sulla Prefazione di Tolkien che Ubaldini per primo decise di non pubblicare pur avendola a disposizione nel testo originale, come già stato fatto e come sarà poi fatto in altre edizioni estere. Con l’avvento di Rusconi fu inserita sì quella tanto discussa (e discutibile) di Zolla che ancora oggi saluta il lettore, ma nell’esclusione di quella di Tolkien si può facilmente dedurre un’eredità dell’editore precedente, piuttosto che una scelta di deliberata sostituzione. Scorrendo le molte recensioni al libro dei primi anni ’70 di cui Cilli fa ampia rassegna, si osserva che la condanna di Tolkien tra le pagine dei giornali della sinistra dell’epoca non fu immediata né chiama in causa elementi testuali o di interpretazione dell’opera, ma seguì il successo del libro e l’affermazione di Rusconi tra gli editori più importanti della penisola. L’impronta decisamente anti-marxista del suo catalogo faceva guadagnare a Rusconi il distintivo di rappresentante delle rinate istanze di destra ultraconservatrice, che potevano essere al contempo anticlericali o (per i più attenti) di forte ispirazione cattolica, il che mise comunque in allarme un settore maggioritario dell’elité culturale, armò diverse penne e trascinò nel vortice diversi autori che in quel dibattito non avevano nessuno spazio di diritto. Esemplare è in questo senso l’ammissione di Valerio Riva su L’Espresso dell’aprile 1973 in merito a sua recensione sulla fiaba di Tolkien.

«… per andar più chiaro stavolta dirò questo: la prefazione di Zolla a Tolkien si è venuta a inquadrare, per l’impostazione ideologica molto esplicita, e per l’epoca in cui è stata pubblicata (1970) nella campagna di idee che la casa editrice Rusconi conduceva allora a favore dell’edificazione di una pseudo-cultura di destra reazionaria, vandeana, con l’effetto specifico di appoggiare la campagna promozionale della più retriva destra cattolica e di quella che sarebbe stata la destra nazionale. È coeva dei libelli di Plebe, pubblicati sempre dalla stessa casa editrice. E Tolkien e Plebe essendo tra i primi libri pubblicati da quella casa, non può sfuggire il loro carattere programmatico.»

In realtà alla luce di tutti i documenti, sfugge eccome. Tolkien era attaccato per il semplice fatto di essere stato pubblicato da Rusconi. Un altro grande merito di Tolkien e l’Italia è quello di mostrare quanto certe diatribe dell’intelligencija fossero già allora distanti dai primi lettori italiani di Tolkien, perfino da quelli che si riconoscevano in gruppi polarizzati nell’associazionismo politico. Cilli non si esime dal descrivere l’adozione di Tolkien da parte della gioventù di destra all’interno dell’MSI-DN e non ne sostiene l’esegesi (lasciando sempre la priorità ai documenti), anzi proprio descrivendola mostra le criticità dei detrattori di allora, di certe caricature nella narrazione contemporanea che divennero postulati anche della cronaca successiva. Non solo la suddetta diatriba sull’educazione alla militanza fascista o pseudo-tale attraverso Il Signore degli Anelli cominciano ben prima effettive attestazioni della nomenclatura ispirata a Tolkien (Campi Hobbit in testa), ma sia le controversie nella dirigenza del partito che ebbero per bersaglio la minoranza rautiana che le dichiarazioni di certi riferimenti intellettuali interni mostrano come la simpatia per Tolkien fosse tutt’altro che un pilastro dell’educazione politica del MSI. Ma soprattutto Cilli documenta l’esistenza di una gioventù tolkieniana di sinistra che precede la controparte. Meno organizzata, certamente, ma non meno espressiva, né meno estrema. Può dunque capitare di trovare a Roma nel 1977 un improbabile e surrealista “indiano metropolitano”, nome in codice Gandalf il Viola, che arringa provocatoriamente una tavolata di dirigenti Fgci, PdUP, Lotta Continua, etc., faccia a faccia con un giovane Massimo d’Alema. O a Milano una rivista di fantascienza gestita dal collettivo Un’ambigua utopia e guidato da Antonio Caronia, che professa «l’obbligo» di trattare Tolkien.

«A destra» e a «sinistra di Tolkien», così li tratta Cilli, un Tolkien che procede imperterrito la sua strada italiana fino ai nostri giorni, idealmente attraverso l’animazione di Bakshi fino ai film di Peter Jackson, trasversale non in sé ma nelle letture che di lui sono state fatte. Ed ognuno s’interroga sulla ragione del suo successo in ogni campo. Ma prima di presentare l’ondata cinematografica nel nostro paese, Tolkien e l’Italia non dimentica come il «caso Italia», per quanto specifico, non sia stato tanto isolato nelle idee quanto si tende a raccontare, spesso contrapponendolo alla rivendicazione hyppie. In ambito inglese e americano, dove il termine “fascist” amplia le proprie accezioni fino a coprire qualunque visione totalitaria, non mancano le accuse ideologiche stavolta sì, direttamente rivolte alla letteratura. Anche queste sono interpretazioni che permangono oggi.

 

GIUDIZIO

Insomma, Tolkien e l’Italia non è solo, a sua volta, un archivio ordinato di tutto quanto si potrebbe desiderare per affrontare nel dettaglio i rapporti tra l’autore di Il Signore degli Anelli e il nostro paese dagli anni ’20 ai 2000, una collezione speciale che Oronzo Cilli offre in esposizione permanente agli appassionati. Grazie alla pubblicazione di documenti unici, prima inediti in Italia o inediti del tutto, numerose citazioni, dalle semplici attestazioni a stralci estesi o interi articoli difficilmente reperibili, abilmente collocate nel loro contesto storico e testimonianze dei protagonisti italiani (raccolte a fine volume), Tolkien e l’Italia diventa anche una mappa per orientarsi tra luoghi comuni o letture affrettate e preconcette del fenomeno culturale che è scaturito nel nostro paese dall’opera di J.R.R. Tolkien. Non si può che unirsi ai ringraziamenti di Wayne Hammond e Christina Scull, modelli di Cilli, per un contributo di questa portata, senza dubbio la più importante ricerca italiana di base su J.R.R. Tolkien.

Non manca la consueta precisione bibliografica, qui raccolta in un capitolo a parte come compendio della sua pubblicazione J.R.R. Tolkien. La bibliografia italiana dal 1967 ad oggi (che viene deputato anche ad una breve rassegna recensoria di tutte le opere edite in Italia escluse naturalmente Il Signore degli Anelli Lo Hobbit). Quasi 100 pagine sono occupate dalla bibliografia usata o consultata dall’autore, da una cronologia dei suddetti rapporti e da indici che aiutano a riprendere i tasselli del vasto mosaico, un numero che da solo aiuta a capire la ricchezza dei contenuti.

VALUTAZIONE: ****¼ (4.25/5)

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Tolkien e l’Italia – Il mio viaggio in Italia
di Oronzo Cilli – J.R.R. Tolkien
Il Cerchio, 2016, p.448
copertina di Piero Crida

DESCRIZIONE 
Grazie a un lavoro di ricerca durato cinque anni, che ha riportato alla luce un gran numero di inediti provenienti da archivi italiani e inglesi, l’autore ricostruisce la storia editoriale delle opere di Tolkien in Italia e il rapporto tra l’autore de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli e il nostro Paese. Dai rifiuti di Mondadori nel 1955 e 1962, alla pubblicazione con Astrolabio, dalle testimonianze dirette dei protagonisti italiani, all’adesione decennale di Tolkien alla Oxford Dante Society.

Ad impreziosire questo importante studio, vengono pubblicate le pagine inedite in Italia del DIARIO che J.R.R. Tolkien scrisse durante il suo viaggio del 1955.

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