Il Male nella Terra di Mezzo: la costruzione degli spazi di paura

di Martino Cardani


In ogni storia, in ogni racconto, forse anche in ognuno di noi, esiste una parte oscura, pericolosa, in alcuni casi malvagia. Tolkien, maestro nella scrittura e nell’arte di costruire mondi, pare aver ben presente l’importanza del male, sia come inevitabile esistenza, sia come forte elemento di contrapposizione a ciò che è bene e buono.
Le prossime parole e, in futuro, i prossimi articoli di questa nuova sezione, ci porteranno a dare uno sguardo al mondo del male o a quei mondi e personaggi che, in qualche modo, si trovano a cavallo della sottile linea di demarcazione.

Alla base del terrore: analogie tra Tolkien e Lovecraft nella costruzione dello spazio della paura

Prima di analizzare i personaggi mi sembrava interessante dedicarmi agli spazi: prima ancora delle opere degli abitanti di Arda, infatti, la straordinaria finezza narrativa e descrittiva di Tolkien è in grado di trasportare il lettore nelle sensazioni visive, uditive e prettamente emozionali degli spazi della paura, per i quali si tenta di tracciare un parallelo con quelli di un altre grande scrittore di inizio XX secolo: H.P. Lovecraft.

Nonostante le caratteristiche dei racconti Lovecraftiani e le opere di Tolkien siano spesso molto differenti a livello di trama e substrato narrativo, esse trovano uno dei punti di incontro nella costruzione dello spazio della paura; che per Lovecraft tale spazio rappresenti la principale ambientazione della maggioranza delle opere (fatto legato prevalentemente all’indirizzo di genere letterario pensato per gli scritti) e per Tolkien sia limitato, invece, a spunti narrativi e descrittivi di zone di Arda in cui è il male ad avere la meglio, poco importa a livello di similitudini nel concetto stesso di creazione, costruzione e sviluppo di questi luoghi.

Entrambi gli autori sembrano relegare lo “spazio della paura” a una dimensione reale ma lontana, quasi intoccabile, non modificabile nella realtà eppure presente e pressante: a supporto di tale tesi si portano gli esempi dell’area delle Tumulilande e delle Montagne della Follia, fantastico luogo disperso nelle misteriose immensità dell’Antartide.

Ciò che lega il concetto stesso di spazio e paura sembra essere il tempo: in entrambi i luoghi, infatti, la sensazione di malvagio, di pericolo e di paura provengono da distanze temporali così ampie da non poter esser percepite semplicemente empiricamente, tanto che la curiosità degli Hobbit e quella degli esploratori della Miskatonic University li portano a un passo dal baratro senza quasi rendersi conto del mortale pericolo che si cela negli spazi inesplorati. Il male, dunque, compare nella sua dimensione più ancestrale e, forse, più inevitabile: esso è percepibile ma subdolo, terrificante ma attrattivo, odiato quanto ipnotico. Tale male va ben oltre l’umano: risulta inenarrabile, indescrivibile, subdolo perché nascosto e in grado di attrarre quella parte dell’interiorità mossa dal desiderio di conoscenza e da quella parte di subconscio che, forse, desidera andare incontro a quell’oscurità, chi per conoscerla, chi per combatterla, chi per abbracciarla.

Tumulilande e Montagne della Follia hanno un’origine tutt’altro che malvagia, seppur appartenente a mondi “di passaggio”: le Montagne della Follia non sarebbero altro che l’antichissima città di dimenticati abitanti del pianeta Terra, in grado di destare terrore e rispetto anche solo per la lontananza temporale dalla nostra civiltà; le Tumulilande, Tyrn Gorthad (Colline dei morti) sono, invece, luogo di sepoltura antico, appartenente addirittura a grandi re e nobili Dúnedain. Altra analogia, seppur poco affrontata da Tolkien, che pure ce la presenta nel passo a loro dedicato, è che entrambi i luoghi sarebbero importanti città della loro cultura, evidenziando il loro ruolo di “spazio di vita” rispetto a quello di “spazio di morte”. Il terrore, dunque, non apparterrebbe all’intimità della terra (lo dimostrerebbe la presenza, non lontano dai tumuli, dell’iconico Tom Bombadil), non si sarebbe sviluppato con le radici delle colline, con la nascita dei corsi d’acqua e il sorgere e cadere delle foreste: pur antichissima, in entrambi i casi la paura sarebbe serpeggiata tra le ombre del tempo, annidandosi negli spazi inesplorati per poi diffondersi e trasformare questi spazi, un tempo di vita, ora di morte, angoscia e terrore. Pressante, una domanda ci tormenta: Perché?

Perché? Ancora analogie: tutti e due i luoghi perdono la loro valenza positiva per abbracciare quella terrorizzante per colpa delle creature che li abitano o che sono direttamente collegate a essi: le Montagne della Follia cadono in rovina per l’opera dei loro occupanti, spintisi troppo oltre nel tentativo di creare e controllare, addirittura schiavizzare, creature da sfruttare per qualsiasi mansione; le Tumulilande diventano patria dei temibili Spettri dei Tumuli dopo i terrificanti incantesimi che il Re Stregone scaglia sulle colline: nel 1636 della Terza Era il potere di Angmar, dopo aver sottratto il Rhudaur ai Dúnedain del Cardolan (signori della regione e abitanti della città nei pressi dei tumuli) e vistosi sfidato dagli stessi nemici, si manifesta con la terribile vendetta che il Re Stregone lancia sulla zona. Tyrn Gorthad, da luogo sacro e capitale, diventa un luogo terribile, abitato soltanto da spettri malvagi, blasfema trasformazione della morte che, da rispettata e venerata, diventa temuta, temibile ed aberrante.

Differente ma legato alla stessa sorte è il destino delle Montagne della Follia: in questo caso la caduta della città è dovuta agli abitanti stessi i quali, dopo aver creato i terribili Shoggoth, non sono più in grado di controllarli, anche a causa della decadenza della propria cultura. Solo nello svolgersi della vicenda, nel districarsi degli enigmi che Lovecraft sapientemente sottopone ai suoi personaggi e ai suoi lettori, i Grandi Antichi si trasformano da causa del terrore a vittima della paura e, quando gli esploratori scoprono i corpi dilaniati di quelli che credevano i loro mortali compagni nel dedalo di corridoi sotterranei che componevano la città con geometrie non euclidee e non umane, allora lo spazio è completamente e incontrovertibilmente uno spazio di terrore. La malvagità dilaga grazie a due terribili vendette, così spietate e colme di rabbia e odio da trasformare l’intima realtà delle aree colpite.

In entrambe le cadute il terrore non è insito nell’esistenza, ma viene portato e generato dalle azioni degli uomini e degli Antichi che, di fatto, causano la fine dello spazio “di vita” per entrare in quello “di morte”. Tali cause sono lontane e non correggibili e il terrore stesso che esse provocano è reale e fisico ma non facilmente identificabile o affrontabile. La nebbia stessa che avvolge quasi perennemente le due aree potrebbe essere una metafora stessa della difficoltà umana di percepire un terrore profondo, antico.

A unire due autori così diversi risulta essere la profondità emotiva nell’esplorare il male. Pur senza darne un giudizio morale entrambi gli scrittori fanno chiaramente capire quanto esso sia legato alla parte più profonda dell’esistenza e, seppur non espresso, il collegamento diretto male-corruzione sembrerebbe evidenziarsi nella trasformazione dei luoghi presentati, silenziose (e terribili) vestigia di ciò che il male è in grado di fare.

Tolkien e i luoghi del male: Minas Morgul.

Ora, sentendo la strada farsi ripida innanzi a sé, Frodo levò stancamente gli occhi; e allora la vide, tale quale Gollum gliel’aveva descritta: la città degli Spettri dell’Anello. Si rannicchiò contro le pietre della banchina. Una lunga valle, profondo golfo d’ombra, penetrava all’interno dei monti. Dal lato opposto della vallata si ergevano, alte su di un seggio di roccia nel grembo nero dell’Ephel Dúath, le mura e la torre di Minas Morgul. Ogni cosa intorno era buia, terra e cielo, ma nella fortezza brillava una luce. Non il chiaro di luna imprigionato fra le mura marmoree di Minas Ithil molto tempo addietro, quando era la Torre della Luna, splendida e raggiante in seno ai colli. Assai più pallida di una luna malaticcia durante una lenta eclissi ne era adesso la luce, vacillante e tremula come una fetida esalazione di putridume, luce cadaverica che non illuminava nulla.

Giunsero così lentamente al bianco ponte. Ivi la strada, fiocamente illuminata, passava sul torrente che scorreva in mezzo alla valle, e proseguiva sinuosa e serpeggiante verso il cancello della città: una cavità nera nel cerchio esterno delle mura settentrionali. Da ambedue i lati del fiume si stendevano ampi prati ombrosi pieni di pallidi fiori bianchi, luminosi anch’essi, di forma bella eppure orribile, come le forme dementi di un sogno inquieto; emanavano un vago e ripugnante odore d’ossario; esalazioni putride empivano l’aria. D’un balzo il ponte collegava fra loro i prati; alle sue due estremità si ergevano, scolpite con abilità in forme umane e bestiali, delle figure degenerate e repellenti.

L’acqua scorreva silente e fumante, ma il vapore che s’innalzava, avvolgendosi e torcendosi intorno al ponte, era freddo come la morte. Frodo si sentì girare la testa ed oscurare la mente. Poi ad un tratto, come se una forza diversa dalla sua volontà lo istigasse ad agire, affrettò il passo, trotterellando innanzi, con le mani brancolanti tese in avanti e la testa che gli oscillava di qua e di là.

J.R.R. Tolkien, Le Due Torri, Libro IV, Capitolo VIII: “Le scale di Cirith Ungol”

Nella magistrale descrizione dell’inquietante valle dell’Ephel Dúath in cui si adagia Minas Morgul Tolkien, ancora una volta, propone una visione non banale dei luoghi del male e della paura. Difficilmente, nella Terra di Mezzo, potremmo incontrare un male così denso e così presente come nell’accoppiata Minas Morgul-Cirith Ungol.

Nella descrizione della città degli Spettri Tolkien usa aggettivi a cavallo tra il mondo “reale” e il mondo del sogno: la percezione che ne deriva è, ancora una volta, di un male percepibile ma non alterabile, angosciante testimonianza di una forma di esistenza corrotta e terribile. Persino gli elementi del paesaggio che potrebbero e dovrebbero essere vitali e piacevoli assumono qui un ruolo disperante, ripugnanti e quasi innaturali. Similmente a quanto accaduto alle Tumulilande, la sorte di Minas Morgul (Minas Ithil prima del 2002 della Terza Era) è quella di essere sottratta ai suoi abitanti, ormai non più in grado di abitarla e difenderla adeguatamente, dopo un periodo di decadenza, per essere trasformata dal Re Stregone in un luogo di terrore. La città, un tempo luminosa testimonianza della grandezza degli uomini nella Terra di Mezzo, cede all’oscurità e ciò che ne deriva è ancora una volta una forma ancestrale e micidiale della paura: sentimento forte e condizionante, non sembra avere più nulla di umano, divenendo in tutto e per tutto un metaspazio che, nella definizione proposta da Stefano Giuliano in Paesaggi come metaspazi, «non sono semplici luoghi, ossia semplici scenari per l’azione narrativa, ma spazi dotati di qualità metaforiche, spazi nei quali immagini e simboli acquistano una propria realtà e pregnanza», ben si pone come mondo di transizione tra il reale e il metaforico, superando il concetto stesso di luogo per incarnare le specifiche sensazioni richieste alla sua stessa esistenza. Questo male, che va ben oltre quello individuale e quasi quotidiano che ciascuno di noi può anche inavvertitamente compiere, assume funzioni e capacità distruttive ma, anche, di creazione («Da ambedue i lati del fiume si stendevano ampi prati ombrosi pieni di pallidi fiori bianchi, luminosi anch’essi, di forma bella eppure orribile, come le forme dementi di un sogno inquieto»), ponendo un’interessante questione riguardo il rapporto che esso si trova inevitabilmente ad avere con Eru Ilúvatar. Se, infatti, nessuno tra gli Ainur ha la possibilità di creare senza il volere dell’Unico, l’esistenza stessa di questo male risulta inevitabile, benché causa di sofferenza, distruzione e morte. Non essendo pensabile un errore di Ilúvatar nel suo disegno di creazione, quindi, il male di Minas Morgul non può essere altro che un’aberrata alterazione di qualcosa di già esistente, una parte dell’interiorità e del bene corrotta dalle forze oscure.

Minas Morgul, descritta quasi oniricamente e quasi celata dietro vapori ed esalazioni tanto fredde quanto ripugnanti, è un non-luogo di terrore che pare porsi in quei recessi della nostra essenza che risultano individuabili ma non raggiungibili o modificabili su nostra volontà e con i quali, volenti o nolenti, devono fare i conti gli abitanti di Arda e con i quali dobbiamo fare i conti nel nostro essere umani.

Il male, dunque, assume diverse forme, simili nell’apparire ineluttabili e inevitabili, ancestrali e in grado di trasformare una realtà luminosa e impregnata di bene in uno dei luoghi della paura di cui si è provato a dare una prima lettura. I luoghi della paura, del male e del terrore, seppur non predominanti nelle opere di Tolkien assumono, in realtà, una grande importanza nella ricostruzione di alcuni dei messaggi che l’autore ha sempre desiderato inviarci attraverso le sue opere: tanto il male concreto, “quotidiano”, quanto quello più astratto, “puro” e insidioso, sono compagni che siamo destinati a incontrare nella Terra di Mezzo, concetto ben chiaro a Gandalf quando, ne Il Signore degli Anelli, si riferisce a Frodo con parole confortanti e stimolanti ma, anche, colme di un senso di impotenza che è sembrato trasparire nelle descrizioni proposte per i luoghi del male:

«Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!», esclamò Frodo.

«Anch’io», annuì Gandalf, «come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato.»

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