La Grande Guerra, Tolkien e la Terra di Mezzo
Il testo fondamentale per approfondire questa chiave interpretativa dei tre Grandi Racconti, nonché dei Racconti Perduti, è la biografia di John Garth Tolkien e la Grande Guerra, la soglia della Terra di Mezzo: qui Garth ci mostra come la Grande Guerra sia davvero la “soglia” tramite cui entrare nella Terra di Mezzo. Il testo ripercorre le vicende dei primi anni di Tolkien, la sua amicizia col TCBS e la storia dei suoi primissimi scritti. Io ne riporto un passaggio che chiarifica e dimostra quanto dicevo prima:
È un giorno gelido sugli altopiani della Francia settentrionale e da una parte all’altra orde di uomini avanzano verso la terra di nessuno in una confusione di fumo, pallottole e scoppi di bombe. Il sottotenente J.R.R. Tolkien dà istruzioni alle staffette in un rifugio del comando, oppure cerca comprendere l’andamento della battaglia in una stretta trincea, ed è ora responsabile delle comunicazioni per un battaglione ridotto al minimo di 400 fucilieri infangati. Al termine della carneficina tre miglia di trincea nemica sono cadute in mani britanniche, ma questo è l’ultimo combattimento che Tolkien vedrà: alcuni giorni dopo cade in preda alla febbre e un’odissea di tende, treni e navi lo porterà infine di nuovo a Birmingham. Lì, in ospedale, inizia a scrivere l’oscura e complessa storia di un’antica civiltà assediata da attaccanti da incubo, in parte macchine e in parte mostri: La caduta di Gondolin, la prima foglia del vasto albero dei racconti di Tolkien. Qui troviamo “gli Gnomi”, o Elfi; ma sono alti, feroci e risoluti, distanti dalle leggiadre fate di Wood-sunshine. Qui troviamo la battaglia vera e propria: non una partita di rugby in veste eroicomica. Molti anni dopo, Tolkien dichiarò che Feeria non aveva mai catturato del tutto il suo cuore di bambino: «Un vero gusto per le fiabe fu risvegliato in me dalla filologia alle soglie della maturità e con la guerra raggiunse in fretta il suo pieno sviluppo».
Scrivendo a suo figlio Christopher, in servizio nella “Royal Air Force” durante la Seconda Guerra Mondiale, egli diede una chiara indicazione di come la sua personale esperienza di guerra avesse influenzato la sua arte. «Io sento tra gli altri tuoi dolori (alcuni sono fisici) il desiderio di esprimere i tuoi sentimenti sul bene, sul male, sul bello, sul brutto: di razionalizzarli, di impedire che si incancreniscano», disse. «Nel mio caso questo desiderio ha generato Morgoth e la “Storia degli Gnomi”». La mitologia infine pubblicata nel “Silmarillion”, che descriveva un tempo in cui Sauron del “Signore degli Anelli” era stato solo un servo dell’angelo caduto Morgoth, nacque dall’incontro tra un genio dell’immaginazione e la guerra che inaugurò l’epoca moderna.”
John Garth, Tolkien e la Grande Guerra, Un giovane con troppa immaginazione, trad. dall’edizione Marietti 1820
Non è tuttavia sufficiente un’interpretazione storica della Caduta per comprenderne la profondità: se ci rivolgiamo ad esempio al testo definitivo, vediamo come Ulmo mandi Tuor a Gondolin per portare il suo messaggio di speranza, e sovvertire il destino della città. Questo “destino” è il termine “doom”, che per chi conosce Tolkien in lingua originale è un termine che richiama a tanti fattori e diverse storie. È un doom per esempio la morte per gli Uomini, che nella poesia dell’Anello sono “doomed to die”, destinati a morire. Doom ci rimanda anche al doom di Mandos contro gli Elfi: quello pronunciato da Mandos fu sia un giudizio che una maledizione che una predizione del futuro, e di fatti doom significa tutte e tre queste cose. Ed è proprio contro questo doom di morte e distruzione che Tuor viene inviato da Ulmo. Ma la domanda che interviene qui è: come si può sovvertire il destino? E poi: se sia Ulmo che Mandos sono dei profondi conoscitori della Musica, che è il destino per eccellenza della Terra di Mezzo, in quanto da essa ebbe origine Arda stessa, come mai ne hanno delle interpretazioni così diverse?
Riguardo alla prima domanda, possiamo ipotizzare che esistano due diversi tipi di destino: quello terreno, di cui Mandos è il simbolo, e quello invece ultraterreno, di cui Ulmo è l’annunciatore. Infatti, per quanto alcuni di Gondolin si salveranno grazie a Tuor, la città verrà distrutta, e solo grazie al figlio di Tuor, Eärendill, giungerà la salvezza per la Terra di Mezzo. Ma solo dal male presente, Morgoth: Sauron perdurerà ancora migliaia di anni, e dopo di lui il male non scomparirà ma prenderà altre forme. Il doom di Mandos quindi si realizzerà, prima o poi, o magari è il presente stesso, sempre malvagio e solo con qualche barlume di bene, ad essere il più efficacie e diretto rappresentante del destino inesorabile. E tuttavia, Ulmo ci parla di una speranza ulteriore, e che perdura nonostante sia priva di fondamento visibile, perché affonda le radici nel cielo, oltre le mura del mondo, che sono il regno del male e di Morgoth, ed è attraverso la fede di Tuor e della sua discendenza che una parte di questa speranza viene condivisa sulla Terra ed allontana il male per qualche tempo.
Ma per quanto riguarda la seconda delle due domande che ci eravamo posti, come mai Ulmo e Mandos interpretano tanto diversamente il destino? È questione solo di essere rappresentanti di due significati diversi del destino, o è il medesimo destino che essi guardano con occhi diversi? Penso si possa dire che non solo essi pensano a due destini diversi, quello terreno e quello ultraterreno, ma che lo stesso identico destino lo vedono sotto due prospettive diverse: Mandos quella della Caduta, Ulmo quella del possibile riscatto.
Mandos vede il mondo così come è: Caduto, sotto l’impero della morte e della sofferenza, e dunque condannato dalla necessità delle cose. Ulmo, invece, vede il mondo come avrebbe dovuto essere (penso che tracce di questa prospettiva possano essere rintracciate nel dibattito sulla rincarnazione e il matrimonio di Finwë dopo la morte della prima moglie Miriel, passo bellissimo e profondissimo contenuto nella HoMe): questo gli permette di guardare oltre la Caduta, e vedervi una possibilità di riscatto, e quindi al posto della morte per Ulmo c’è la salvezza, ed al posto della necessità si trova la libertà. Ulmo è forse il Vala che maggiormente è in grado di reggere e di accettare il rischio della libertà, e quindi dell’indipendenza, dei Figli di Eru: non tutti i Valar ci riescono, e Mandos meno di tutti. Non per nulla, quando gli Elfi appaiono per la prima volta nella Terra di Mezzo ed i Valar per questo incatenano Melkor, quando si tratta di vedere se portare o no gli Elfi a Valinor, Ulmo è l’unico dei Valar di cui si sa per certo che si oppose a questa scelta: secondo lui dovevano essere lasciati liberi di vagare, senza essere rinchiusi in una sola terra al cospetto delle divinità. Come sappiamo, sarà proprio Ulmo ad avere ragione: la principale argomentazione di Melkor e di Feänor con gli Elfi sarà proprio quello di liberarsi dal giogo dei Valar, e forse è proprio per questo che una volta perdonati dai Valar verranno lasciati liberi di tornare su Valinor o rimanere sulla Terra di Mezzo.
Come può vedersi bene, le possibilità interpretative aprono a nuovi significati, e la Caduta di Gondolin parla in modo chiaro, forte, nuovo e affascinante a chiunque si avventuri nella lettura.