GLI ARAZZI DI AUBUSSON /2: “Bilbo si sveglia accanto all’aquila”

di Martina Ravaioli


Torniamo nuovamente a parlare del ciclo di arazzi dedicati a Tolkien in fase di realizzazione presso la Cité International de la Tapisserie di Aubusson. Nell’articolo precedente, abbiamo analizzato il primo arazzo intessuto, quello con Bilbo a cavalcioni di una botte. Anche l’illustrazione e l’arazzo di cui tratteremo ora ci raccontano della avventura di Bilbo.

Il 4 settembre 2020 infatti è venuto alla luce, dalle sapienti mani degli artigiani di Aubusson, un altro arazzo, l’ultimo realizzato al momento, che va ad arricchire sempre più questo ciclo, che ormai si prepara a volgere al termine: ne mancano infatti “solo” quattro alla fine.

L’opera in questione, realizzata dai mastri tessitori Françoise Vernaudon, Anne Boisseau et Natalie Mouveroux, misura più di otto metri quadri e si rifà ad un’iconografia tolkeniana alla quale sono particolarmente legata: quella delle grandi aquile.

In particolare è stato rappresentato il momento in cui, ne Lo Hobbit, Bilbo si risveglia nel nido delle aquile, dopo essere stato da esse salvato, la notte precedente, durante l’attacco degli orchetti.

Bilbo si sveglia accanto all’aquila si rifà, come tutti gli altri arazzi del ciclo, ad una illustrazione autografa di Tolkien, e arriva, quasi come guidato dalla provvidenza, in un momento particolare della nostra storia: un momento di forte difficoltà per tutti noi, in cui pare prevalere l’oscurità, in cui molti di noi paiono confidare in un intervento salvifico, come sottolinea Baille Tolkien, nuora dell’autore, durante la presentazione dell’opera:

«L’arazzo è davvero sublime, all’altezza degli altri.

Ciò che spero per tutti noi è che, dopo questo incubo, ci risvegliamo tutti con il sole negli occhi.»

Anche in questa occasione, come in molte nella Terra di Mezzo, le aquile arrivano a sollevare un poco la nostra anima insieme ai nostri occhi.

Questo animale non capita a caso nella narrazione di Tolkien: l’aquila porta in seno una simbologia davvero potente, che risale alla notte dei tempi e conta le più svariate provenienze. L’aquila ha sempre ricoperto un ruolo importante nella storia dell’uomo, la sua presenza in disegni e manufatti è tangibile della sua rilevanza.1 Saranno stati la sua bellezza, la sua maestosità e la sua capacità di volare più in alto di molti altri uccelli, di raggiungere e solcare il regno celeste, a renderla e legittimarla nei secoli quale simbolo salvifico e di rinascita.

Fin dagli esordi della civiltà umana abbiamo raffigurazioni di aquile in tutto il bacino del Mediterraneo al quale segue una diffusione sempre di maggiore raggio: dalla Babilonia fino alla valle dell’Indo, fino ad arrivare in Polinesia e nelle Americhe. L’aquila è spesso associata al potere divino: Horus, il dio egizio, dalle sembianze rapaci, diviene emblema imperiale in epoca classica. Inoltre, in età antica, troviamo frequentemente la sua figura comparata a quella del serpente, una lotta perpetua rappresentante una dicotomia ancestrale tra bene male che vedremo essere presente anche in Tolkien, seppure con animali diversi in contrapposizione.

L’aquila ha libero accesso alla sfera celeste, riesce a volare dove l’occhio umano non arriva, fino alle cime più alte ed impervie e probabilmente è per questo che nella mitologia mongolica questo uccello viene associato alla montagna quale luogo originario del mondo, un accostamento che vedremo riemergere nell’immaginario della Terra di Mezzo.

Con la nascita del cristianesimo l’iconografia dell’aquila si carica di un significato salvifico e diviene metafora tanto della resurrezione, atto paragonato alla muta del piumaggio, un processo molto stressante nei rapaci e che, anche negli esemplari addestrati, riporta ad uno stato di inselvatichimento, quindi a una sorta di ritorno ad uno stato primario, più puro, tanto dell’ascensione.

L’aquila permane nella storia dell’arte per tutto il Rinascimento e oltre sia come simbolo cristiano sia come citazione pagana nel revival classico tipico dell’arte laica, acquisendo varianti sempre nuove, fino a tornare, in epoca napoleonica, simbologia imperiale.

Un animale da una valenza così simbolica da propagarsi a livello mondiale fin dall’età antica, non poteva certo essere ignorata da Tolkien.

Tolkien e le aquile

Colantonio, San Girolamo nello studio. Il Padre e Dottore della Chiesa è rappresentato intento a rimuovere una spina di rovo dalla zampa del leone che poi gli si affezionò.

Come tutti i personaggi e i luoghi della Terra di Mezzo, anche le aquile recano una storia e un’origine. Tolkien le pensa generate da Manwë, e le colloca inizialmente ad Arda, sul Taniquetil, loro nido dal quale vengono inviate laddove vi sia bisogno di sorveglianza.

Quando Morgoth stabilì il proprio potere ad Angband, esse si dispersero e occuparono luoghi differenti: alcune sul Crissaegrim, Fenditura tra Picchi Montuosi, altre si recarono nella dimora del re di Númenor, altre ancora sulla cima del Meneltarma.

Esse appaiono, sia ne Lo Hobbit sia ne Il Signore degli Anelli, per ribaltare le sorti della Terra di Mezzo, intervenendo a favore del bene. In entrambe le opere non si fanno particolari menzioni alla loro collocazione geografica nel dato periodo. Le aquile paiono al di sopra delle contese mortali, ma si riservano il diritto di apparire quali aiuto divino.

Particolarmente interessante è il legame creatosi tra Gandalf e il Signore delle Aquile, Gwaihir: esso giunge più volte in suo soccorso. Questa simpatia pare essere nata quando lo stregone curò l’animale dalla ferita di una freccia, episodio che rimanda a figure cristiane quali San Gerolamo o San Francesco, entrambi meritevoli di aver salvato una bestia a primo sguardo indomabile e fiera.

(segue a p. 2)


Note

1 Cfr. Rudolf Wittkower, Allegoria e Migrazione dei Simboli, Einaudi, 1987