Terra di Mezzo e videogame, un amore-odio
di Francesca Flagiello
Il mondo dei videogiochi non poteva non interessarsi al frutto della sconfinata fantasia di Tolkien. Già a partire dal 1982 vediamo la comparsa sul mercato del primo articolo ad esso dedicato: l’avventura testuale de “Lo Hobbit”, seguita poi da tutta una serie di titoli che, grazie alla produzione cinematografica di Peter Jackson, hanno avuto nuova linfa vitale e mostrato a varie generazioni di videogiocatori un universo fino ad allora assai poco conosciuto.
Non dilungandomi sulla presentazione dei numerosi titoli prodotti, quello che invece vorrei portare all’attenzione del lettore è l’impatto del mondo videoludico sull’opera tolkeniana e viceversa, cercando di analizzarne le varie implicazioni.
Quella della divulgazione, o per meglio dire, della riscoperta di opere letterarie che altrimenti difficilmente avrebbero così tanta attenzione è certamente una delle funzioni che il videogioco svolge egregiamente: la saga del Signore degli Anelli non è la prima e non sarà l’ultima a diventare oggetto di trasposizione videoludica, e di questo dovremo necessariamente tenere conto, nonostante molti puristi della letteratura arriccino il naso alla sola idea.
Quando infatti acquistiamo un videogioco e ci immergiamo in quel mare di byte che lo compongono, rispondiamo a una serie di bisogni molto profondi di cui appena siamo consapevoli. Primo tra tutti, esaudiamo il desiderio di fare ulteriore esperienza di quel mondo che ci ha così tanto affascinato, in modo da prolungare il più possibile le sensazioni provate, estenderle, amplificarle.
Man mano che la tecnologia ha permesso l’elaborazione di giochi sempre più sofisticati da un punto di vista di meccanica di gioco e graficamente sempre più appaganti, questo ruolo sembra essersi sempre più esteso, producendo titoli che raggiungono la perfezione, o quasi.
Il videogioco è innanzitutto un prodotto di mercato e come tale deve sottostare alle leggi che lo governano e, nella produzione di un titolo, questo è un fattore determinante; il paradosso, se possiamo dirlo, è che è lo stesso pubblico ad avere un certo peso nel dettarne l’andamento, a decidere quali aspetti si andranno a preferire e quali invece si andranno a sacrificare. La nostra analisi quindi dovrà tenere conto di diversi aspetti: di come l’opera letteraria venga modellata sul videogioco, le aspettative da parte del pubblico, l’esperienza del videogiocatore, e infine, di quanto gettito economico sarà in grado di produrre.
Quando si decide di adattare un’opera letteraria ad un videogioco, appare purtroppo quasi scontato che nella maggioranza di casi essa non verrà rispettata al 100%, vuoi per oggettive limitazioni della storia narrata, vuoi per impossibilità materiale o per precisa volontà, ma nel caso delle opere del Professore?
Prima di provare a rispondere a questa domanda è necessaria una piccola premessa; i pilastri che sorreggono un videogioco, ampiamente studiati a livello sociologico (come ad esempio da Callois) sono essenzialmente quattro, ossia l’agon (la “competizione” contro il cpu o contro un amico), l’alea (la “fortuna” come nel sistema del videopoker), il mimicry (il “simulacro”, come ad esempio i giochi gestionali) e l’ilinx (la “vertigine” provata davanti a giochi tecnicamente stupefancenti). La combinazione di questi, unita a una propensione verso un sistema di regole più rigido o dove l’elemento caotico sia di maggior peso, sono ciò che essenzialmente è il gioco, ma questo ha risvolti che non possiamo ignorare. Specialmente negli ultimi anni vediamo come dietro il grande ventaglio di esperienze che il videogioco ci offre si nasconde l’insidia della deresponsabilizzazione: specialmente quando le cose vanno male ecco che si torna all’ultimo salvataggio, o quando il pet digitale non ci diverte più ecco che eliminiamo lo slot che lo riguarda e così via, in un circuito dove il gioco da esperienza entusiasmante diventi solo l’ennesimo prodotto svilente e di svilimento.
Tornando alle opere del professore, grazie sempre alla portata mediatica dell’opera di Jackson, abbiamo assistito a un fenomeno che ha caricato sempre più di aspettative i titoli ad essa legati, partendo ad esempio da prodotti quasi perfettamente aderenti alla storia originale come la “Compagnia dell’Anello” del 2002, fino agli ultimi titoli della nuova saga de “La Terra di Mezzo: L’ombra di Mordor” in cui la storia dalla quale è tratta (ossia le vicende narrate ne “I figli di Hurin”) ha un ruolo decisamente più marginale.
Quindi la saga cinematografica ha prodotto un effetto sorprendente, spingendo la produzione videoludica in una ben precisa direzione, riuscendo però anche a discostarsene una volta che questa ha esaurito la sua spinta propulsiva, e alla luce di questa evoluzione viene naturale domandarsi quale sia il senso attuale e passato dei videogiochi ambientati nell’universo tolkeniano.
Sicuramente a questa domanda non c’è una risposta univoca, né semplice. Come già accennato, al mondo del videogioco sono legate importanti funzioni antropologiche e sociali davvero profonde (di cui non è questa la giusta sede di approfondimento), ma un elemento che certamente li contraddistingue è il prolungare l’esperienza vissuta già nei libri o suscitare viva curiosità in chi invece non li ha ancora letti: oltre a ciò vi sono una certa funzione pedagogica e un’immersione in una realtà alternativa che permette al giocatore di porsi domande e osservare con i suoi stessi occhi l’effetto di certe sue azioni, o sperimentare diversi aspetti e situazioni, che per ovvie ragioni nella storia originale non sono stati esaminati.
Qui però subentra il gusto personale di ognuno. e Se per alcuni queste opere videoludiche che ampliano lo sguardo sul mondo della Terra di Mezzo sacrificando l’attinenza alla storia originale sono ritenute stimolanti, o osservate come “semplice” prodotto della rielaborazione di un classico, per altri sono invece uno scempio dell’opera del professore, asserendo che così la potenza delle sue opere sia svilita e piegata al nuovo trend del mercato videoludico basato principalmente sul sensazionalismo grafico e meccanico ma povero di sostanza e principalmente improntato a spillare quanti più soldi possibile all’utente.
Eppure, ignorare l’enorme potere evocativo del videogioco sarebbe alquanto ingiusto, soprattutto alla luce dei nuovi titoli, in grado di fornire esperienze decisamente intense e di suggestionare e ispirare la mente di chiunque vi si approcci, ottenendo due possibili effetti: una velocissima corsa verso la prima libreria (anche digitale) per acquistare tutti i volumi disponibili e lanciarsi in una vorace lettura che risponderà a tutte le domande che il gioco inevitabilmente lascerà irrisolte: in alternativa, una pigra accettazione della splendida ma più che parziale visione già preconfezionata che il gioco ci propina, perché la lettura non è in grado di riproporre le stesse sensazioni, la stessa immediatezza e soprattutto, non ci pone domande scomode.
I videogiochi quindi rappresentano un’arma a doppio taglio sia in senso più generale che per quanto riguarda l’opera tolkeniana: se per alcuni sarebbe più che naturale impedirne la produzione per contenerne lo svilimento, già da questo primo esame emerge che possono anche favorire l’incontro con l’opera da cui sono tratti. Pertanto, piuttosto che fermarli, propenderei a un “utilizzo consapevole” e a una “produzione responsabile”; infatti preferirei avere un prodotto che rispecchi di più l’autentica filosofia del professore, che ispiri il giocatore verso la “corsa alla libreria”, piuttosto che l’ennesimo gioco in cui la violenza diventa protagonista quasi assoluta, relegando gli eventi narrati a mero scenario.
[NDA: Un grande grazie lo devo a Gianfrancesco Torcianti, il cui aiuto stato più che prezioso per la stesura di questo articolo!]