R. R. Tolkien e G. K. Chesterton, due grandi campioni del genere fantasy moderno, intendevano la creazione letteraria, e l’arte in generale, come qualcosa che esprima la creatività di Dio nel mondo. Alison Milbank ha scritto il libro Chesterton and Tolkien as Theologians per esplorare l’opera di queste gigantesche figure. In questa intervista, approfondiamo come la bellezza artistica, e nello specifico le grandi opere narrative, possano suscitare in noi un senso del mistero della bellezza, finché il mondo intero assomigli a una grande opera d’arte.
Tolkien scrive sulla subcreazione per descrivere cosa è legittimo nell’opera creativa. Il termine suona già teurgico – compiere l’opera di Dio al proprio livello. Cosa intende Tolkien con subcreazione?
Significa fare cose, e in particolare fare arte. Scrivere storie, immagini, questo genere di cose… che Tolkien sente partecipare, in un qualche senso reale, all’atto della creazione. Noi facciamo seguendo la legge secondo la quale siamo fatti. Siamo i figli di un Dio che crea dal nulla, che fa le cose libere, se si vuole. E perciò noi facciamo cose al nostro proprio livello, benché io pensi che Tolkien avrebbe probabilmente seguito George MacDonald, che, nel suo saggio sull’immaginazione fantastica afferma che l’invenzione è una sorta di ritrovamento, sicché Dio ci dà le cose dalle quali possiamo creare. L’argilla, le foglie, le parole, persino il linguaggio. E noi le usiamo per fare cose in modo da costituirle in nuove combinazioni. Ma in un certo senso, tutte queste combinazioni sono possibilità già presenti nella mente di Dio. Così possiamo fare, nel mondo, una cosa che non c’era prima. E Tolkien pensava che avremmo continuato a farlo in Cielo. Nella sua poesia Mythopoeia, scritta per convertire C. S. Lewis, dice a Lewis che il mito è reale. Afferma che il Cielo sarà a sua volta un tempo di creatività.
Questo mi ricorda l’idea di San Gregorio di Nissa per il quale il Cielo si estende attraverso l’eternità. Non è statico.
Assolutamente, è molto dinamico, proprio come in Gregorio di Nissa. Cosa che naturalmente riguarda completamente una maggior conoscenza e un maggior amore. Più conoscenza crea più amore, che a sua volta crea più conoscenza, e così si va avanti, sempre avanti, e in un certo senso è la stessa cosa. Lei mi ha citato, via email, Nicola Cusano, il teologo e cardinale quattrocentesco. Aveva questa idea – basata sulla considerazione di un costruttore di cucchiai, in uno di quei dialoghi – che la nostra conoscenza venga dal fare. Impariamo attraverso il concreto processo del fare. E credo che questo Tolkien lo credesse, anche se probabilmente non aveva mai letto Nicola Cusano.
Com’è possibile scoprire immaginando, scoprire una realtà preesistente creando? Sembrerebbe con questo che si rischi di proiettare le proprie credenze piuttosto che scoprire realmente qualcosa. Lei ha detto che ciò che creiamo è un potenziale già latente, per così dire, nella mente di Dio. Questo mi ricorda il Padre della Chiesa san Dionigi e l’idea del ricevere e poi del ridare.
Sì, tutto nel mondo di Dionigi è sempre un dare e ricevere. E in questo modo, avviene che ce ne sia sempre di più. Così, la bellezza ti chiama a diventare bello. Sempre prendiamo e rendiamo. I trascendentali (bontà, verità, bellezza – anche se la bellezza non era pensata come trascendentale fino a un’epoca successiva, ma solo perché era considerata una parte della bontà) sono in un certo senso intercambiabili. E quanto più ci avviciniamo a Dio, tanto più questi trascendentali appaiono come una cosa sola. Ed ecco perché amo le fiabe. Nelle fiabe, la principessa è sempre buona e bella, e questo è perché, in Dio, verità, bellezza e bontà sono una cosa sola; ed ecco quindi che c’è questo tipo di idea ricolma di Grazia nelle fiabe.
Perché guardare all’estetica medievale e alle fiabe in particolare?
Tolkien è interessato nel regno delle fiabe, che è, in un certo senso, il regno dell’immaginazione. È infatti un regno in cui l’umano incontra un tipo di alterità ed è tratto in una realtà incantata. In certo senso, quella realtà incantata è la realtà come dovrebbe essere. Lo si vede particolarmente nella trattazione che Tolkien fa degli elfi, che hanno un modo di fare non alienato. Fanno a partire da se stessi, e le cose che fanno assumono una certa qualità. La loro corda è più “cordosa”, può sciogliersi da sola. Il loro pane dura molto più a lungo; i loro mantelli ti rendono quasi invisibile. E questo accade perché sei nel regno delle fiabe. Ora, essendo un regno dell’alterità, può anche avere un lato pericoloso, persino un lato negativo. Nella mitologia, ovviamente le fate hanno valenze diverse secondo la cultura da cui provieni. Gli elfi di Tolkien sono un modo di provare a rendere la fata all’interno di una prospettiva cristiana. A cosa appartengono le fate? Penso che, per lui, la fiaba sia interessante nella misura in cui porta le persone in un regno diverso, ma che comunque è un mondo che è in una relazione di un certo tipo con il nostro.
Il cristianesimo non ha realmente degli spiriti neutrali. Sono angelici o demoniaci, tipicamente. Mi chiedo se, in Tolkien, gli arconti, o spiriti della natura, possono essere battezzati.
Suppongo che ciò che egli pensava di star facendo fosse un po’ più intermedio. Tolkien vedeva Il Signore degli anelli come una sorta di versione pagana dell’Antico Testamento. È un po’ come l’opera di Snorri Sturluson, un cristiano che ha scritto l’Edda in prosa. Conosciamo i miti norreni principalmente grazie ai cristiani. L’autore di Beowulf, di cui Tolkien scrisse, è un cristiano che scrive di un mondo pagano.
Non cristianizzano completamente il mito, ma gli danno un tipo di qualità che lo orienta al futuro cristiano. Così lo si può pensare come un tipo, o qualcosa di simile. Così tendo a leggerlo. Così, benché dica cose, nelle sue lettere, riguardo, sapete, al fatto che Galadriel sia un po’ come la Vergine Maria – beh, lo è e non lo è. È piuttosto diversa, anche se si potrebbe vederla come una sorta di figura sapienziale, come la Vergine sedes sapientiae, oppure si potrebbe vedere la sua umiltà come qualcosa che guarda già all’umiltà della Vergine Maria. Galadriel ha anche fatto alcune cose piuttosto malvagie in passato, a seconda di quale versione della sua storia precedente si legge.
Così è una prefigurazione, una praeparatio evangelica, ma non una chiara analogia del cristianesimo. Mi chiedo se può spiegare cosa intende con il “rendere strano”, di cui scrive in Chesterton and Tolkien as Theologians.
Utilizzando quest’espressione mi riferivo a dire il vero a un uomo chiamato Victor Shklovsky che, ancora all’inizio del Novecento, scriveva su quello che chiamava defamiliarizzazione, in particolare a riguardo di Tolstoj. Ma qualsiasi tipo di opera narrativa ha una sorta di autocoscienza in sé. State leggendo una storia. State leggendo una poesia. E quando in quell’opera incontrate il mondo, in certa misura, vi trae fuori dalla realtà.
Ora, ovviamente il fantasy lo fa in un modo molto puro, e quando Tolkien scrive sul “rendere strano” trae l’idea da Chesterton, per il quale è il metodo principale di scrittura. Chesterton scrive in un modo letterario, o grottesco, che fa sì che le cose ordinarie sembrino bizzarre o incantate.
Le storie di Padre Brown funzionano così. Siamo in un mondo molto ordinario, per esempio in una sala da tè londinese, e improvvisamente accade qualcosa di inesplicabile, e il mondo intero sembra strano. Non sembra essere ciò che pensavi che fosse. Tutto è possibile. Sei tratto in una sorta di regno quasi fantastico. Come può accadere che un corpo sparisca da un isolato di appartamenti, quando tre testimoni guardavano e nessuno è entrato o uscito? Significa forse che i corpi possono fare cose che non pensiamo possano fare? Così, Chesterton vi porta via da un mondo che sembra funzionare secondo leggi note. Questo è il modo con cui Chesterton opera al fine di ricostruire la realtà.
Di solito non ha una spiegazione sovrannaturale. Nelle storie di Padre Brown c’è di solito una spiegazione naturale, ma non giunge con un senso di “Oh, era tutto qui?”. Viene con il senso che la realtà sia molto più profonda e misteriosa di quanto pensavamo. E rimane avvolta nel mistero alla fine.
In un certo senso, è ciò che ogni vera arte dovrebbe fare. Dovrebbe portare via dalla normale comprensione di come le cose funzionano, di come le parole funzionano, anche se rende consci di una parola, della sua “parolità”. Improvvisamente la si vede diversamente. Anziché essere una parola che si dice solo per intendere qualcosa, improvvisamente si pensa a ciò che una parola è. Ed ecco un altro modo di “rendere strano”, se ha un senso ciò che sto dicendo.
Potrebbe commentare sulle idee economiche di Chesterton, che forse sono simili a quelle di Tolkien?
Chesterton passo molto velocemente dall’essere un liberale al diventare infine un distributista. E questo emergeva dalla sua incredibile valorizzazione del locale in tutta la sua densità, e da una sensazione che le grandi strutture non dovrebbero danneggiare questa aderenza al locale. Scrisse un romanzo, Il Napoleone di Notting Hill, per dimostrare che il semplice appartenere a Notting Hill non è abbastanza. Bisogna pensare a Notting Hill in relazione a Londra, agli altri quartieri, al mondo, ma sempre partendo da Notting Hill. Il patriottismo diventa deviante quando comincia a pensare che il mio paese sia migliore di un altro. Anziché amare Notting Hill perché è Notting Hill, lo sia ama perché si pensa che sia migliore di ogni altro posto.
Così, Chesterton ha questo senso molto forte del locale e che la politica dovrebbe svolgersi a livello locale. Crede nella proprietà privata in un senso molto tomistico, ossia che questi sono modi in cui possiamo esercitare la nostra libertà, creatività, e carità. Ma, se ce ne fosse realmente bisogno, proprio come dice san Tommaso, si dovrebbe cederlo per il bene comune se necessario. Così, Chesterton divenne davvero un distributista, e fu accusato di dire che tutti avrebbero dovuto possedere due acri e una mucca. Cosa che può essere vista come piuttosto romantica. Ma è una visione incredibilmente inglese, perché gli inglesi amano vivere in piccole case con un terrazzo e un angolo di giardino e, al tempo in cui Chesterton scriveva, avrebbero avuto un maiale da ingrasso. È la sensazione di una sorta di autosufficienza. Non si è alla mercè delle forze di mercato. Era anche molto legato all’idea che i soldi non andassero accumulati. Dovevano essere distribuiti al maggior numero di persone possibili. Così, questo è Chesterton.
Tolkien è ovviamente molto conscio di questo, e lo si può vedere nella contea. Certamente, si è scritto della Contea come di una democrazia distributista. Ma, sicuramente, la Contea esiste in relazione ad Aragorn, che, se volete, è qualcosa come il Sacro Romano Imperatore o le Nazioni Unite – solo che Tolkien ama molto la monarchia, così Aragorn è decisamente equivalente al Sacro Romano Impero. Ma, sapete, permette al locale di essere se stesso senza interferire, ma lo protegge e in certo senso esercita una mediazione fra il locale e l’universale. Abbiamo bisogno di istituzioni che realizzino la mediazione, e penso che la Contea sia, in certo senso, una di queste. Così, penso che sia Chesterton sia Tolkien credano in una sorta di politica del bene comune. Lei ha citato proprio all’inizio l’idea di un socialismo cristiano. Tutti gli amici di Chesterton, quando era anglicano (e rimasero amici) erano socialisti cristiani. Ma tendevano ad essere sindacalisti che erano molto attenti alle gilde, ai sindacati, alle cooperative, alle chiese. Consideravano la famiglia come gruppo mediante.
Ricordo in Storia di un uomo vivo o L’uomo che fu Giovedì che Chesterton disse che anche in Cielo avrebbe avuto del terreno e un recinto, o qualcosa di questo tipo.
È piuttosto interessante perché, certamente, Tolkien scrisse una piccola allegoria intitolata Foglia di Niggle sull’essere un artista. Nell’aldilà, l’artista crea il proprio giardinetto con Parish, che rappresenta qualcosa simile alle esigenze della carità. Creano questo piccolo giardino concluso, anche se, devo dire, poi vanno al di là di esso.
La forza e la debolezza di questo tipo di visione è che è sempre molto facile proporre che lo Stato faccia qualcosa, ma rigenerare il locale è difficile dopo che è stato eroso. È come piantare un albero. Non si vedono i risultati oggi o l’anno prossimo. Forse la narrativa è uno dei mezzi attraverso i quali si ispira questo tipo di azione. In Tolkien succedono un sacco di cose, ma l’amore del locale è enfatizzato dal suo scegliere uno Hobbit come il suo eroe.
E infatti, il vero eroe è forse Sam, basato sul soldato comune della Prima Guerra mondiale – Sam che diventa l’erede di Frodo alla fine del romanzo. Ma secondo me, la politica locale è veramente lì dov’è. Viviamo in un mondo globalizzato in cui l’unico modo per superare la sensazione che tutto sia fuori dal nostro controllo è fare le cose localmente e in modo sostenibile. Comprare cose più localmente possibile e mangiare più localmente possibile, e avere relazioni con le persone prossime a sé. Questo è uno dei modi in cui questi autori parlano al futuro oltre che al passato.
Di Carlos Perona Calvete
Traduzione a cura di Chiara Bertoglio