di Benedetta Bini, Martino Cardani, Benedetta Lolli, Alessandra Miceli
Uno dei regali più belli che Tolkien ha fatto a lettori e studiosi è sicuramente la figura degli Hobbit. Branca della razza umana di origine sconosciuta, gli Hobbit emergono rapidamente nella subcreazione tolkieniana offrendo all’autore ed ai lettori una prospettiva privilegiata sugli accadimenti della Terra di Mezzo:
Mentre i primi racconti sono visti attraverso gli occhi degli Elfi, quest’ultimo grande racconto, che dal mito e dalla leggenda scende a terra, è visto principalmente attraverso gli occhi degli Hobbit: diventa così, di fatto, antropocentrico.
(Lettera 131)
Attraverso gli Hobbit ci giungono sentimenti quali la speranza, la lealtà, il coraggio, l’umiltà e la tenacia, tutte cose molto “umane”: con i viaggi di Bilbo e Frodo impariamo che chi parte ha la speranza della meta e che ogni viaggio porta in sé il seme del cambiamento per il viaggiatore. Per questo oggi, 22 settembre, in occasione del compleanno di Bilbo e Frodo, vogliamo proporvi un approfondimento su questo popolo protagonista dei romanzi di Tolkien, a partire dalle preziose informazioni contenute in due lettere di Tolkien: la già citata lettera 131 a Milton Waldman del 1951 (la stessa pubblicata in apertura ad Il Silmarillion) e la lettera 163 a Wystan Hugh Auden del 1955.
All’origine degli Hobbit
Tutto ciò che ricordo sull’inizio dello Hobbit è che stavo correggendo degli esami di diploma nell’incessante tediosità di quel compito annuale imposto agli accademici squattrinati con figli. Su un foglio lasciato in bianco scarabocchiai: “In un buco nella terra viveva uno hobbit.
(Lettera 163)
Con queste parole Tolkien raccontò numerose volte la sua invenzione spontanea degli hobbit. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: anche la più spontanea delle creazioni di Tolkien può affondare le sue radici nelle esperienze, nelle letture e negli studi che Tolkien ha intrapreso con passione e precisione, arrivando a unire numerosi pezzi di un invisibile puzzle che prendeva lentamente forma nei pensieri del Maestro e che, per nostra fortuna, ha avuto come esito finale la bellezza di cui ancora oggi possiamo meravigliarci leggendo le sue opere.
«Sono eccezionali nelle feste, che essi danno all’aria aperta con lunghi tavoli uniti fra loro e che seguono le curve delle strade. Ciò si rende necessario perché quasi tutti sono invitati»; state pensando agli Hobbit? In particolare, alla festa del centoundicesimo compleanno di Bilbo Baggins? In tal caso potreste rimanere delusi, infatti avete appena letto un breve estratto del libro The Marvellous Land of Snergs di Edward Augustine Wyke-Smith (1871-1935), un racconto per bambini scritto nel 1927, molto amato da Tolkien e i suoi figli. Come alcuni di voi sapranno, il professor Tolkien era solito leggere ai suoi bambini le fiabe prima di andare a dormire, lui stesso trovava diletto in quelle magiche storie. Da Lo Hobbit al Signore degli Anelli, così passando per tutti i suoi racconti, troviamo involontari rimandi alle conoscenze che Tolkien aveva acquisito attraverso gli studi da filologo, le sue letture da padre e da amante della fiaba e del mito. The Marvellous Land of Snergs, per citare Tolkien stesso, è «probabilmente un’inconsapevole raccolta di scritti attorno agli Hobbit, non altro» (Lettera 163) . Nella lettera 131 Tolkien confessò che tra le sue passioni, fondamentali quanto lo studio e la creazione del linguaggio, c’era quella per il mito (specificando «non per l’allegoria!») e «per la fiaba, e soprattutto quella per le leggende eroiche sul crinale fra appunto fiaba e storia». Curiosamente nel suo legendarium di Tolkien troviamo fitti riferimenti a leggende dell’antichità classica, celtiche, norrene e germaniche, scandinave e finniche, e romanze, ma l’ispirazione dei nostri amati Hobbit deriva curiosamente da tutt’altra fonte quale è il racconto di un ingegnere minerario e scrittore britannico come Wyke-Smith. Non deve poi stupire se si pensa che Tolkien scrisse Lo Hobbit per i suoi figli come racconto indipendente, quando lo iniziò non sapeva che anch’esso apparteneva a quell’insieme di leggende che stava componendo da tempo.
Dunque, in cosa consiste la somiglianza tra gli Snerg e gli Hobbit? Innanzitutto gli Snerg sono «una razza di persone solo un po’ più alte di un tavolo, ma larghe di spalle e di grande forza», vivono in una sperduta isola da qualche parte nel mondo, inoltre sono descritti come creature amichevoli ma scarsamente intelligenti, nonché inguaribili festaioli. La storia narra di due bambini, Joe e Sylvia, che disobbediscono e fuggono dalla colonia dove vivono. A far loro compagnia durante l’avventura è Gorbo, il meno intelligente degli Snerg. I protagonisti finiscono per trovarsi in mezzo a fatti di magia e «dalla parte sbagliata del fiume». Durante il viaggio affronteranno pericolosi e buffi incontri, come quello con un orco che è diventato vegetariano e non mangia più bambini, fino a che un gioioso finale conclude il racconto.
Ma gli Snerg possono essere stati fonte di ispirazione solo per gli abitanti della Contea come popolo, e non per gli hobbit protagonisti della Cerca di Erebor e della Guerra dell’Anello, personaggi che Tolkien stesso osò descrivere come dei gioielli tra gli Hobbit: Bilbo, Frodo e i loro compagni sono portatori di messaggi che vanno oltre la voglia di far festa o la buffa sbadataggine.
Ancora una volta, come spesso capita confrontandosi con le opere di Tolkien, mai lasciate al caso e straordinarie per la complessa profondità della costruzione di ciascuna vicenda di ciascun luogo, personaggio o vicenda, sono le parole dei libri a iniziarci ai misteri di Arda, in questo caso annidati nella figura di quegli hobbit, all’apparenza così superficiali e semplici ma, nel profondo, ben più simili agli eroi di quanto essi stessi siano disposti a credere.
Gli Hobbit ai due lati della collina, un confronto tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli
Bilbo piegò un ginocchio a terra, con il cuore carico di dolore. “Addio, Re sotto la Montagna!” disse. “Amara è la nostra avventura, se deve finire così; e neppure una montagna d’oro potrebbe rimediare. Tuttavia, sono felice di esserti stato accanto nel pericolo – è un onore che nessun Baggins meriterebbe.”
“No!” disse Thorin. “In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura. Se fossero più numerosi tra noi coloro che preferiscono il mangiare, il ridere e il cantare all’accumulare oro, questo mondo sarebbe più lieto. Ma triste o lieto, adesso debbo lasciarlo. Addio! “
Allora Bilbo si voltò e andò a sedersi in disparte, avvolto in una coperta, e, che lo crediate o no, pianse finché i suoi occhi si fecero rossi e la sua voce rauca. Aveva un animo sensibile, e sarebbe passato molto tempo prima che ritrovasse il piacere di scherzare.
La morte di Thorin, momento straziante e fondamentale nel corso della narrazione de Lo Hobbit, è probabilmente uno degli strumenti più efficaci a disposizione del lettore per poter comprendere la natura hobbit nell’universo tolkieniano. Nonostante Thorin fosse caduto vittima della “maledizione” del tesoro che l’aveva portato a una disperata pazzia, e conseguentemente non fosse più in grado di riconoscere la lealtà e l’amicizia di Bilbo, quest’ultimo lo perdona, ricordando a Thorin l’onore provato per l’amicizia nata tra i due nel corso della storia.
In Bilbo non c’è traccia di rancore o di risentimento, e Thorin, finalmente libero dalla bramosia, riconosce all’amico la grandezza del popolo della Contea: la ricchezza degli Hobbit è ben superiore a qualsiasi bene materiale accumulabile.
Soffermandoci sulla seconda parte delle ultime parole del Re sotto la Montagna, è possibile costruire una linea comune tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli: in entrambe le opere, infatti, ai Mezzuomini viene riconosciuta una resistenza alla tentazione (alla ricchezza o alla forza dell’Anello) che è innata, caratteristica di un popolo che, è evidente, stima più una calma campagna coltivata rispetto, per esempio, a un’inestimabile cotta di Mithril. Nelle infinite peripezie affrontate da Bilbo, Frodo, Sam e gli altri Hobbit della Contea, raramente viene a mancare questa condizione di semplice felicità che rende i nostri personaggi assimilabili a quelli dotati di grandi volontà come Aragorn e Galadriel, in grado di resistere all’Unico, pur raggiungendo tale condizione in modi evidentemente molto diversi. Tale calma è ben riconoscibile anche nel desiderio che Bilbo più volte esprime: più di ogni cosa, durante la sua avventura, la Contea torna nei pensieri dello hobbit, come rifugio sicuro, isola di serenità in un mondo che sembra essere retto da modi e brame impensabili al di là del Brandivino. Tale attaccamento alla terra natia è anche il primo pensiero di Frodo dopo essersi liberato dell’Anello: non sono ricchezze o beni strettamente materiali ad affollare la mente dell’ormai libero Portatore, ma le dolci semplicità che cullano la vita degli hobbit tra verdeggianti colline della Contea.
Eppure, nonostante le caratteristiche che rendono un hobbit effettivamente un hobbit siano costanti e radicate nell’animo e nello spirito di ciascun personaggio, esiste qualche differenza tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Frodo, Sam, Merry e Pipino ma, anche, lo stesso Bilbo, che compare in entrambe le opere, sembrano aver sviluppato quello che Gandalf aveva riconosciuto nel suo Scassinatore: se il Bilbo Baggins de Lo Hobbit ha bisogno di una spinta per lasciare la Contea e il suo primo impulso sarebbe quello di “buongiornare” lo stregone, non sembra esserci esitazione nel cuore di Frodo quando, esortato dalla necessità, chiude alle sue spalle la rassicurante porta tondeggiante di casa Baggins. A loro modo i suoi improvvisati compagni di avventura (o sventura, in qualche caso), sono pronti a dimenticare quella calma hobbit considerata, dalla società della Contea, come simbolo di stabile affidabilità. In un certo qual senso, si è portati a credere che tra l’avventura di Thorin e le vicende de Il Signore degli Anelli, ciascun personaggio hobbit abbia percorso quella strada di crescita e cambiamento delineata da Gandalf a Bilbo e confermata dal morente Thorin: «In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura».
In questo senso, in conclusione, non esisterebbero due diverse “versioni” della figura hobbit tra i due libri, semplicemente perché il protagonista de Lo Hobbit non sarebbe altro che il punto di partenza per lo sviluppo della personalità di ciascuno degli hobbit de Il Signore degli Anelli. Come in una sorta di “racconto di formazione” collettivo e quasi sociale, dunque, il percorso intrapreso da Bilbo si estende al suo erede Frodo e i suoi amici, i quali poi rendono partecipi della loro maturazione tutti i Mezzuomini con la riconquista della Contea al termine della storia: il coraggio di Bilbo, Frodo, Sam, Merry e Pipino viene così idealmente trasmesso a tutti i loro conterranei, quasi avessero compiuto il famoso passo verso l’avventura e l’ignoto dopo che troppo a lungo si era pensato agli Hobbit come a un popolo pigro e senza ambizioni.
Hobbit: pietre scartate?
Perché gli Hobbit, potremmo chiederci? A loro sembrerebbe mancare la gloria, la grandezza, la forza degli eroi a cui siamo abituati (o, forse, a cui il mondo ci ha abituati). Eppure, attraverso loro passa la salvezza della Terra di Mezzo: passa attraverso la stirpe più ordinaria di Arda, attraverso le creature più piccole, semplici e nascoste descritte dal Professore, una piccolezza che all’apparenza potrebbe costituire un disvalore, ma che si rivela essere tutt’altro
Sono completamente privi di poteri non-umani, ma vengono rappresentati come esseri più in contatto con la natura (la terra e gli altri esseri viventi, piante e animali) e, per gli uomini, straordinariamente privi di ambizione o avidità di ricchezze. Sono piccoli […] in parte per esporre la piccolezza del gretto uomo provinciale privo di immaginazione, anche se non con la meschinità o la crudeltà di Swift, e soprattutto per mostrare, in creature di minima forza fisica, il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario quando è necessario.
(Lettera 131)
Legati alla natura, alla terra, all’humus e, quindi, umili: ma di quell’umiltà annunciata nel Magnificat, e che lo stesso Tolkien menziona:
A ogni modo io stesso compresi il valore degli Hobbit: mettere solida terra sotto i piedi del “racconto fantastico”, e fornire soggetti per la “nobilitazione” ed eroi più degni di lode rispetto ai professionisti: nolo heroizari ovviamente è un ottimo inizio per un eroe, come nolo episcopari lo è per un vescovo […] tuttavia suppongo, per parlare in termini letterari, che siamo tutti uguali di fronte al Grande Autore, qui deposuit potentes de sede et exaltavit humiles.
(Lettera 163)
La stessa umiltà di un giovane Davide che va incontro a Golia leggero e senza armatura, armato di cinque sassi e della Speranza, che è propria di chi riconosce la necessità di rivolgersi verso l’Alto, di chiedere aiuto, di essere consapevoli di non riuscire a farcela da soli. Proprio come quando, prima con Frodo a Colle Vento e al Guado del Bruinen, poi con Sam nella Tana di Shelob, quando sembra svanita ogni possibilità di salvezza, vediamo gli Hobbit invocare Elbereth Gilthoniel. La ‘humilitas’ che si fa ‘humanitas’.
Gli Hobbit sembrano essere pietre scartate tra i popoli di Arda, e, forse, sono la stirpe che ci è più vicina: gli abitanti della Contea sono in parte un impietoso ricordo di quello che siamo. Non siamo straordinari, non siamo eroi, inciampiamo, cadiamo, cediamo, siamo indolenti e talvolta siamo troppo occupati con i cavoli e le patate che la vita ci mette davanti, come ci dice lo stesso Gaffiere. Eppure:
Le grandi linee della storia del mondo, le ruote del mondo, sono spesso girate non dai Signori o dai governanti, e nemmeno dagli dèi, ma da quelli che sono apparentemente sconosciuti e deboli, e questo a causa della vita segreta della Creazione, e della parte inconoscibile a ogni saggezza tranne Una, che consiste nell’intrusione dei Figli di Dio nel Dramma.
(Lettera 131)
La salvezza, allora, passa dagli Hobbit, eroi inaspettati, proprio perché umili e fragili: in fondo, sono profondamente umani e sono scelti proprio perché “non migliori”. Scegliere Frodo, scegliere Bilbo, ma persino scegliere noi come eredi del Regno dei cieli, sembrerebbe folle. È la follia di Dio, del Grande Autore, una follia che confonde il nemico, una follia piena d’Amore. Nella nostra realtà, non esistono buoni senza macchia: tutti siamo costantemente tentati e non sempre siamo capaci di superare le prove, ma tutti possiamo tornare da amati nel luogo in cui credevamo di essere sbagliati. Non è l’infallibilità a renderci eroi, ma l’accettare una rinuncia: la vittoria del Bene è possibile rinunciando senza costrizione a qualcosa di prezioso, che sia tanto l’Anello quanto il desiderio di una vita tranquilla.
Cosa portiamo di Hobbit, nella nostra vita? Davanti all’ordinarietà dell’esistenza, con la sua routine, i suoi fallimenti, le sue abitudini, i suoi pregi, i suoi limiti, le sue gioie, i suoi dolori, i suoi successi, sembra non si vada verso nulla di straordinario: al contrario, proprio questo dovremmo scoprire, che il poter vedere gli Elfi e i Draghi non ci aspetta alla fine, bensì in mezzo ai nostri cavoli e patate, ed è solo tramite ciò che si costruisce ogni giorno che si capisce che le nostre aspirazioni più grandi possono compiersi. I pregi che riconosciamo agli Hobbit e in parte a noi stessi, non sono eroismi, anzi: probabilmente non ci aiuteranno nell’essere costanti nel nostro cammino, né ci difenderanno dai pericoli, ma sono luci che daranno, nella nostra quotidianità, la possibilità allo straordinario di accadere.
Gli abitanti della Contea invocano un certo buonsenso hobbit, ma la natura di questo sta nel riconoscere di non essere perfetti: serve umiltà per prendere una decisione o per costruire una teoria del mondo che riconosca che per raggiungere la gioia non serve essere eroi, ma basterà anche solo un’aurea e preziosa ‘mediocritas’ in cui scoprirsi capolavoro. Possiamo fare grandi cose se sappiamo lavorare nel piccolo, possiamo fare meraviglie se sappiamo accettare l’insignificante. Nel nostro viaggio, come Bilbo, come Frodo, capiamo che «Casa è alle spalle e il mondo avanti»: viaggiando, camminando, vivendo, perdiamo certezze e aspettative, ma troviamo qualcos’altro, per via, qualcosa che ci riempie di meraviglia. Scopriamo di non aver camminato a vuoto, ma di aver costruito qualcosa, attraverso il godere delle piccole gioie che incontriamo ogni giorno: fosse anche solo il sedersi davanti alla porta di casa, in compagnia del Vecchio Tobia.