“Fede e ragione in Tolkien”: intervista esclusiva a Giuseppe Scattolini sul suo nuovo libro

di Alberto Nutricati


È un libro ponderoso e poderoso quello di Giuseppe Scattolini. “Guidami luce gentile: fede e ragione in J.R.R. Tolkien” (L’Arco e la Corte, 2022) è un libro unico nel panorama degli studi tolkieniani, mosso e alimentato da una vocazione (perché di vocazione si tratta più che di ambizione): mettersi in ascolto e far parlare Tolkien attraverso i suoi scritti.

Per avere un’idea del percorso tracciato da Scattolini, è sufficiente dare una rapida occhiata alle oltre 800 note a piè di pagina, distribuite tra i dieci capitoli nei quali si articola il volume, e ai 300 titoli contenuti nella corposa bibliografia, per un totale di circa 200 studiosi citati, tra autori, coautori e curatori.

Scattolini parla di Tolkien come di un filosofo e di un “grande teologo”; ovviamente non un filosofo o un teologo sistematico, ma comunque dotato di una chiara, fondata e ben articolata visione del mondo. Nel fare ciò, Scattolini compie un’operazione coraggiosa e non priva di rischi, come rischioso è ogni tentativo di avventurarsi in territori non ancora battuti o, come avrebbe detto Tolkien, nel “reame periglioso”.

L’autore inserisce Tolkien all’interno della corrente neoplatonica che, partendo da Plotino, attraversa carsicamente i secoli, riaffiorando di tanto in tanto, sino a giungere all’epoca contemporanea, dove ha avuto i suoi epigoni nei massimi esponenti dell’ermeneutica filosofica, tra i quali Hans George Gadamer, Luigi Pareyson e Paul Ricoeur. Non a caso Scattolini parla in modo esplicito di ermeneutica filosofica tolkieniana. A questo tema è interamente dedicato il secondo capitolo. Così come il decimo e ultimo capitolo è significativamente intitolato «Tolkien: teologo del secolo».

Scattolini parte da una premessa necessaria: l’importanza che Tolkien attribuisce al mito e al linguaggio non sarebbe comprensibile se non si tenesse conto dell’approccio antropologico adottato dal Professore. Ecco perché Scattolini prende le mosse proprio dall’antropologia tolkieniana – alla quale è dedicato il primo capitolo – per dipanare il suo discorso in modo lineare, logico e consequenziale, portandolo alle naturali conseguenze.

Dall’antropologia alla filosofia il passo è breve. Nei successivi capitoli si passa dalla filosofia della filologia all’ermeneutica e da questa alla teologia. In tale lungo e insidioso cammino trovano posto i grandi temi affrontati da Tolkien: la dialettica tra realtà e illusione, il valore della conoscenza, la Verità, il rapporto tra fato e libero arbitrio, il male, la religione, la legge morale, l’eucatastrofe.
Scattolini riannoda attorno all’opera di Tolkien i fili di un pensiero che si è via via sfilacciato nel corso della storia della filosofia. Lo fa con perizia, grazie anche a un uso arguto e oculato delle fonti, tracciando sentieri di ricerca inediti, tanto stimolanti quanto suggestivi.

La prefazione è firmata da Roberto Mancini; la postfazione da Greta Bertani. La presentazione è affidata a Mauro Toninelli, che ha aperto la strada al “metodo auto-narrativo” (che lo stesso Toninelli ha utilizzato per spiegare Il Signore degli Anelli alla luce delle Lettere e del saggio Sulle fiabe) poi adottato anche da Scattolini, estendendolo all’intera produzione tolkieniana. L’impostazione è la medesima, come identiche sono la profondità e la fecondità di lettura. L’approccio è complementare: più accademico Scattolini, più divulgativo Toninelli.

Il volume è ulteriormente impreziosito dalla traduzione integrale a cura di Enrico Spadaro di un saggio inedito del professore e studioso tolkieniano francese Michaël Devaux.

Insomma, un lavoro certosino, puntuale, approfondito, nato da un confronto costante con le opere di Tolkien durato oltre un decennio.

Il libro è in corso di pubblicazione. Noi abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di leggerlo in anteprima e, per saperne qualcosa in più, abbiamo intervistato l’autore.

Giuseppe Scattolini, un libro nasce per rispondere a delle esigenze: quelle estrinseche, scaturenti dal dibattito in corso sull’oggetto di studio, e quelle intrinseche, legate agli interessi, alle convinzioni, alle emozioni del suo autore. A quali esigenze personali e culturali hai pensato di rispondere con questo libro?

 «Le esigenze cui cerco di rispondere con questo libro sono molte. È per questo che ci ho lavorato sopra per anni e l’ho rivisto e corretto forse una decina di volte. L’obiettivo ambizioso che mi sono dato è stato quello di scrivere un libro di alto livello che però fosse alla portata di tutti: la missione impossibile che ho cercato di raggiungere era quella di mettere in mano al lettore un testo tanto accademico quanto divulgativo. Se ci sono riuscito lascio il giudizio a chi legge. Io ritengo di esserci riuscito, per quanto ciò sia umanamente possibile. Tu cosa ne dici?».

Ma non dovrei essere io a porre le domande? A parte gli scherzi, le note così puntuali e copiose e la ricca bibliografia sono un rinvio evidente alla genesi accademica di questo libro che, non dimentichiamolo, nasce come tesi di laurea poi integrata e arricchita. Si tratta, quindi, di un testo impegnativo, che tira in ballo pensatori antichi e moderni, molti dei quali sconosciuti al grande pubblico. C’è bisogno di una forte motivazione per affrontare una simile lettura. Del resto, lo riconosci tu stesso quando, nelle primissime pagine, affermi che il tuo lavoro non ha forma divulgativa, “ma è tuttavia pensato in modo tale da risultare abbastanza semplice per essere approcciato da chiunque abbia desiderio di approfondire in modo serio il nostro autore”. Ecco, un serio desiderio di approfondimento è la chiave di accesso a questo libro. Lo sforzo sarà ampiamente ripagato.

«Lo spero davvero e mi permetto di crederci! In ogni caso, al di là di questo obiettivo, ve ne erano altri, tutti abbastanza correlati ad esso e tra loro. Anzitutto, e non so se anche altri hanno avuto questa sensazione, è mio parere che in generale i testi che trattano la natura religiosa delle opere tolkieniane siano generalmente privi di fondamento razionale e filosofico. Io ho cercato di mostrare la fondatezza di tali letture. Inoltre, frequentando i social e gli ambienti tolkieniani, ho visto in tanti che, consci del valore, e dei valori, dei testi tolkieniani, non sono riusciti a rendere ragione di ciò con argomenti solidi. Io ho cercato di dare loro tali argomenti, soprattutto per quanto riguarda talune affermazioni “strane” che fa Tolkien in merito alle sue opere, come ad esempio quelle sulla religione naturale e il monoteismo dei Númenoreani. Quanto sarà importante conoscere il senso di queste parole di Tolkien, sarà proprio la nuova serie tv Amazon che, credo, ce lo insegnerà.

In ultimo, altre due sono le esigenze cui ho cercato di dare risposta: il trattare unitariamente le opere tolkieniane e l’affrontare in modo nuovo l’antitesi tra paganesimo e cristianesimo nei testi del Professore. Nella critica ho sempre riscontrato una tendenza a focalizzarsi sul solo Signore degli Anelli, specialmente, di nuovo, quella a carattere religioso. Questo non va bene perché si perde la maggior parte della ricchezza che i testi tolkieniani hanno da offrire.

Attualmente, poi, il dibattito sulla questione “pagano/cristiano” si è fossilizzato dopo anni molto accesi ed è generalmente accettato che entrambi siano compresenti nei testi del Professore. Il cosiddetto “approccio sintetico”, altrettanto in voga quanto quello della compresenza, non solo non credo che aggiunga nulla, ma alcune cose le nasconda addirittura. Pensare che paganesimo e cristianesimo nelle opere tolkieniane siano compresenti o sintetizzati è una visione assolutamente inorganica, asistematica e ascientifica, e non solo, anche fortemente rinunciataria. Ho cercato quindi di andare oltre e di superarla perché c’è molto di più da scoprire e da capire se facciamo parlare direttamente i testi e il contesto letterario, narratologico, culturale, filosofico e teologico entro cui Tolkien si inserisce. Mauro Toninelli aveva già aperto la strada in questa direzione e io ritengo di avere abbondantemente dimostrato questa verità tramite il mio scritto. Anche qui lascio ai lettori la sentenza».

Ritengo che il ritorno ai testi, tanto sbandierato quanto poco praticato, sia il punto di partenza per ogni ricerca che punti a fare chiarezza su un autore. La letteratura critica offre un importante contributo, a tratti imprescindibile, a patto di non sostituire, come sovente accade, le interpretazioni con quella che in gergo si dice la intentio auctoris (intenzione dell’autore n.d.a.). Tra le due, la priorità spetta a quest’ultima. E questo è un altro merito che va ascritto al tuo lavoro. Ma ora, procediamo con le domande: se dovessi spiegare sinteticamente ai nostri lettori cosa aggiunge questo imponente lavoro agli studi tolkieniani, cosa diresti?

«Dato che devo essere sintetico, anche per non “spoilerare” troppo, questo testo aggiunge oggettivamente al dibattito degli elementi più che degni di nota, derivanti dall’inedito confronto di J.R.R. Tolkien con tre grandi autori e pensatori: J.H. Newman, R.G. Collingwood e L. Bouyer. Il primo è un famosissimo apologista inglese del XIX secolo, santo della Chiesa Cattolica Romana, fondatore dell’Oratorio di San Filippo Neri a Birmingham, dove Tolkien venne cresciuto da padre Francis Morgan. Nonostante questo forte legame tra Tolkien e Newman, di cui tutta la critica è al corrente, nessuno si è mai occupato di approfondirlo prima di questa mia ricerca. Il secondo è un filosofo oxfordiano con cui Tolkien ebbe stretti rapporti dal 1926 in avanti. La conoscenza di Collingwood fu per Tolkien altrettanto importante che quella di O. Barfield, amico che gli presentò C.S. Lewis e faceva parte degli Inklings. A differenza del rapporto tra Tolkien e Barfield, però, sul quale anche nel mio libro ho messo delle belle novità, quello con Collingwood non è mai stato studiato da nessuno ed è totalmente inedito. Il terzo autore è L. Bouyer, un grande teologo del secolo scorso, amico personale di Tolkien, che a livello mondiale è stato oggetto di studio di un solo altro e, nel suo caso, grande studioso del mondo tolkieniano: M. Devaux, con cui mi sono messo in contatto e che mi ha gentilmente fornito un suo saggio totalmente inedito da mettere in appendice al mio libro proprio su questi nostri due autori. Quindi le novità in questo caso non saranno propriamente assolute come nei casi precedenti, perché invece di essere il solo ad avere approfondito la questione, nel caso di Bouyer e Tolkien siamo in due e mi debbo accontentare della medaglia d’argento».

È un bell’accontentarsi, visto che arrivare secondi, alle spalle di uno studioso del calibro di Devaux, equivale a tutti gli effetti a una vittoria! Ma andiamo oltre. Il volume cerca di sdoganare l’immagine di Tolkien come filosofo; non un filosofo sistematico, ma di certo un autore dotato di una chiara e ben delineata Weltanschauung (visione del mondo n.d.a.). In questo, ricorda gli sforzi fatti nei decenni scorsi da alcuni pionieri, spesso avversati dalla vulgata, per sottrarre scrittori del calibro di Dante e Leopardi all’esclusivo appannaggio della letteratura, con l’obiettivo di portare gli studiosi a considerarli anche da prospettive più propriamente filosofiche. Ci dici qualcosa in più su questo aspetto?

«Nel risponderti a questa domanda, colgo l’occasione per fare presente a tutti i lettori che nel mio libro troveranno tanti paroloni, ma non grossi come i termini tedeschi! E sì, quella che cerco di esporre è proprio la Weltanschauung, o meglio, la visione del mondo di J.R.R. Tolkien. Tale obiettivo è perseguito pionieristicamente tramite un confronto a tutto campo di Tolkien con sé stesso e con gli autori che lui conosceva e apprezzava, o con i sistemi di pensiero con cui era in qualche modo venuto a cozzare. Questo è l’indirizzo che io auspico per tutta la critica tolkieniana a livello mondiale e che un testo come Tolkien’s Library di O. Cilli indica, ancor più che aiutare a perseguire, cosa che senza dubbio alcuno fa. Il tentativo è quello non di “sottrarre” Tolkien a qualcuno, che siano critici letterari, atei, studiosi o appassionati semplici di qualsiasi genere. Il tentativo è quello di trovare l’ottica giusta da cui leggere questo autore, cioè un metodo di lettura all’interno del quale tutti possano riconoscersi, studiare l’autore ed aprire percorsi di studio da perseguire scientificamente, e non a tentoni. Ad esempio, non bisogna concordare con la tesi di fondo del libro, la cattolicità dell’autore, dei suoi studi e delle sue opere letterarie, per riconoscere l’importanza di R.G. Collingwood o J.H. Newman per lo studio di Tolkien e quindi aprire filoni nuovi che partano da queste prospettive. Poi certo che se si segue il metodo sarà difficile anche discostarsi poco o tanto dalla mèta che quel metodo ha dischiuso».

Come specifica opportunamente il prof. Mancini nella Prefazione, l’approccio che hai utilizzato è filosofico e teologico, ma non ideologico. Immagino, tuttavia, che qualcuno ti accuserà di esserti servito della filosofia e della teologia per fornire una lettura ideologica di Tolkien e delle sue opere. Come risponderesti a una simile critica?

«È quello che mi domando da mesi, perché sono certo che in tantissimi diranno che questo è un libro fortemente ideologico. Ho cercato il più possibile, nello scriverlo, di evitare una deriva ideologica, di essere più ragionevole possibile nell’esporre le tesi e nel renderle il più possibile verificabili e razionalmente condivisibili. Tuttavia, mi rendo anche conto che questo è oggettivamente impossibile, perché l’autore ha i suoi limiti. Essi, poi, vengono travasati in un mezzo, quello scritto, che li accentua e ve ne aggiunge sopra degli altri, come insegnava il grande Platone. In più c’è sempre l’imprevedibile questione soggettiva: che sentimenti susciterà la lettura di questo libro? Euforia per alcuni, rabbia per altri. Temo i primi come i secondi, giacché in entrambi i casi il testo viene letto ideologicamente perché a partire dalle proprie idee e convinzioni personali e si perde così l’unico punto di vista che vorrei preservare ed esaltare, quello dell’autore. Quindi come risponderei? Anzitutto chiedendo perdono per i miei limiti e quelli del mio scritto, che sono numerosissimi. Come ho scritto anche all’interno, si tratta di un testo programmatico che in tantissimi casi accenna a certe questioni più che sviscerarle. In seconda battuta, proporrei una sincera autocritica a tali persone per capire se l’approccio ideologico è il mio o il loro. In ultimo risponderei semplicemente che la pensiamo diversamente e che rimango in attesa di un’interpretazione antitetica a quella da me data alle medesime fonti da me utilizzate, a meno di negare del tutto tali fonti. Un ridimensionamento e un aggiustamento nel loro uso saranno certamente possibili, come anche uno sviluppo e ampliamento. Ma una totale negazione, questo sì che sarebbe ideologico, specialmente in taluni casi, a partire da autori “rodati” come Boezio fino alle novità come Newman e Collingwood. La scientificità e la forza del mio lavoro non consistono sicuramente nella completezza, ma nell’organicità e nella coerenza senza dubbio alcuno».

Poiché il tuo intento dichiarato è quello di spiegare Tolkien con Tolkien, facendo parlare l’autore, il tuo lavoro si pone in continuità – per lo meno sul piano del metodo – con quello di Toninelli, che non a caso firma la Presentazione del libro. Il tuo progetto, però, si spinge molto più in là. Ciò ne fa un unicum nell’ambito degli studi tolkieniani. Che cosa l’applicazione di questo metodo ti ha consentito di scoprire e quali scenari futuri apre?

«Come dico sempre a Mauro (Toninelli n.d.a.), la sola diversità tra di noi sta nella differenza di approccio: lui ha un metodo più didattico ed espositivo-educativo dei testi, io sono più accademico e spazio maggiormente in “elucubrazioni dotte”. Sono approcci complementari che mirano allo stesso obiettivo e, in realtà, anche alla stessa platea di lettori, cioè tanto gli studiosi che gli appassionati semplici. Il mio è un unicum nell’ambito degli studi? Secondo me anche quello di Mauro lo è, e nessuno lo ha capito e apprezzato come merita per via del suo particolare approccio non accademico che vela tanto la profondità di pensiero quanto la semplicità, l’eleganza, la giustezza e la novità di fondo della tesi proposta. Spero che la diversità del mio libro aiuti a riscoprire anche quello di Mauro e non vedo l’ora di presentare Tolkien al suo fianco, perché insieme i nostri approcci si completano e possiamo davvero parlare adeguatamente di questo autore, e insieme regalare un pensiero, una riflessione, un qualcosa di bello e di buono a chi ascolta. Ciò è possibile perché nessuno di noi due si sente uno “studioso”, ma uno “studente” di Tolkien: siamo consapevoli che abbiamo entrambi tanto da imparare da questo autore, e ciò, forse, ci dà una mezza marcia in più. A parte quelli accademici e di studio, comunque, lo scenario più bello che apre questo libro è una serie di chiacchierate sul nostro autore preferito assieme agli amici di sempre: non solo Mauro, ma anche ad esempio Gianluca Comastri, Edoardo Volpi Kellermann, Greta Bertani e tanti altri. Potrò parlare anche io di Tolkien assieme a loro potendo finalmente esporre le mie scoperte, cosa che non mi sono sentito di fare prima di pubblicare. Come lo faremo? Non da studiosi, ma, appunto, da studenti di Tolkien».

Il Prof. Mancini definisce il tuo lavoro una guida alla lettura, ma anche alla scoperta del senso radicale di Tolkien. Ecco, quale è il senso radicale di Tolkien?

«Be’ quello che vorrei passasse è che non si legge questo autore per “pettinare le bambole”, ma perché ci coinvolge umanamente. I suoi testi suscitano la nostra umanità e le domande fondamentali che ci portiamo dentro. Leggere questo autore senza porsi affatto tali domande o facendo finta di non sentirle, nascondendo a sé stessi la verità sulla nostra natura umana – e, anzi, così rifiutandola – è solo uno spreco di tempo. Per divertirsi e passare il tempo, è meglio leggere altri autori fantasy contemporanei, come Harry Potter di J.K. Rowling: si tratta di testi molto carini e anche con messaggi positivi, ma privi di quella radicale profondità del Professore di Oxford e di quegli autori antichi della letteratura, della filosofia e della teologia che lui aveva in mente nel processo di mitopoiesi, cioè la scrittura dei miti. Chi legge Tolkien senza porsi tali domande, ma continua a farlo perché ama solo Tolkien e niente altro, dovrebbe, secondo me, fermarsi un momento e riflettere attentamente sulla natura della propria passione e le sue motivazioni profonde. Questo, se vogliamo, è un altro degli inviti che faccio scrivendo e pubblicando questo mio libro. Il senso radicale di Tolkien è, infatti, il senso radicale dell’umano. Quale fosse il senso radicale dell’umano secondo il nostro autore l’ho specificato nel libro: l’Incarnazione di Dio in Gesù di Nazareth. Ne ho spiegato i principi generali, il significato, le cause e le conseguenze in modo ampio, ma non esaustivo: esaurire questo argomento è impossibile per sua natura. Ciò non toglie che chi legge altro che non sia Tolkien non si ponga le domande di cui parliamo, ovviamente, o non cerchi il senso radicale dell’umano. Questo dipende dalle inclinazioni intellettive e spirituali, nonché dai gusti e dalla sensibilità di ciascuno, tanto quelli ereditati, quanto quelli sviluppati nel corso della propria esistenza. Quello che vorrei sottolineare è che leggere Tolkien senza degli interrogativi esistenziali e ontologici su di sé, la natura del cosmo e l’origine del tutto, e senza confrontarsi con le idee dell’autore in merito, è vano e privo di senso, oltre che ideologico».

Tu sostieni che l’ermeneutica tolkieniana abbia una struttura neoplatonica di fondo e che Tolkien legga lo stesso cristianesimo in chiave neoplatonica. Del resto, come già aveva evidenziato Flieger, Eru sembrerebbe essere la riproposizione tolkieniana dell’Uno plotiniano. Quella di Tolkien sarebbe, dunque, una rivisitazione del neoplatonismo di Plotino e, per certi versi, delle posizioni neoplatoniche che nei secoli successivi assumeranno Boezio ed Eriugena. Tutti e tre citati a più riprese nel tuo libro, dove invece non trovano spazio gli allievi diretti di Plotino, Porfirio o Amelio Gentiliano, né Giamblico, che orientò il neoplatonismo verso la direzione che da lì in seguito avrebbe preso questa corrente filosofica, né Proclo, scolarca dell’Accademia di Atene, il quale ebbe il merito di sistematizzare il neoplatonismo. Quanto e perché è importante il neoplatonismo per Tolkien e, soprattutto, di quale neoplatonismo parliamo?

«L’ho detto che il mio libro ha dei forti limiti, dovuti per lo più all’autore, e molti punti li accenna soltanto in modo programmatico! Infatti, in questo caso si tratta anzitutto del fatto che il tema del libro non è un confronto tra Tolkien e il neoplatonismo, ma il mostrare appunto la struttura neoplatonica di fondo del pensiero tolkieniano e come tale struttura sia essenziale come chiave interpretativa di tantissimi elementi che, altrimenti, non riuscirebbero ad essere spiegati, non dico sistematicamente – appunto perché Tolkien non era un pensatore sistematico – ma almeno secondo una certa logica.

In seconda battuta quello che mi interessava fare era confrontare Tolkien con tutti i generi di neoplatonismo, non solo quello antico o così canonicamente definito, ma specialmente il neoplatonismo contemporaneo che è, nella mia interpretazione, l’ermeneutica filosofica classica di Gadamer, Pareyson e Ricoeur. Costoro sono tutti filosofi del ‘900, di mezza o una generazione posteriore a quella di Tolkien, ma che comunque si sono confrontati con le medesime problematiche storiche e filosofiche del Professore. Quanto questo sia importante per il libro tutti i lettori potranno constatarlo, specialmente quelli interessati alle problematiche filologiche e linguistiche del pensiero filosofico tolkieniano.

Insomma, ho dovuto compiere delle scelte, trascurando alcuni autori a favore di altri. Ecco, quindi, che la tua domanda apre a uno dei tantissimi nuovi filoni di studio che andrebbero percorsi a partire dal mio libro. Chissà se lo farò io stesso… non lo so assolutamente, la vita per grazia di Dio è imprevedibile».

Nel tuo libro citi centinaia di filosofi e teologi. A tuo avviso, quale tra loro ha maggiormente influenzato Tolkien? 

«Centinaia è un’iperbole! In ogni caso, secondo me nessuno di loro ha influenzato davvero Tolkien quanto il suo tutore padre Francis Morgan, per tutta una serie di motivi. I primi sono di carattere oggettivo: egli mise a disposizione di Tolkien una biblioteca spettacolare e lo fece vivere accanto a figure di spicco non solo della cultura ma anche della spiritualità inglese dell’epoca all’interno dell’Oratorio di Birmingham. In seconda battuta gli fece frequentare prima la King Edward’s School e poi l’università di Oxford: senza padre Francis, Tolkien si sarebbe sposato ben prima con Edith Bratt e a costo di fare il manovale, e avremmo dovuto dire addio al Professore e alla Terra di Mezzo. Padre Francis, poi, gli stette vicino come un padre anche dopo che si fu sposato ed era diventato genitore.

Oltre a questi, ci sono motivi soggettivi altrettanto e forse ancor più importanti. Fu padre Francis Morgan, infatti, a stargli vicino alla morte della madre e a dargli le ragioni intellettuali e spirituali per accettarla. Da tali ragioni ritengo che sia stato generato tutto il pensiero tolkieniano. Questo significa che quello su cui Tolkien ha lavorato negli anni è un’elaborazione della morte dei suoi genitori e del suo essere orfano di mamma e papà attraverso la figura e gli insegnamenti del tutore: di questo nelle Lettere c’è una forte traccia. La Grande Guerra ha avuto un peso notevole, certo, ma anche lì lui la chiave di lettura l’aveva sempre in padre Francis. Il tipo di fede e di approccio alla vita che ne è scaturito è il tema del libro, che credo dimostri anche come ben dopo la morte del padre oratoriano Tolkien abbia proseguito nel suo riflettere in merito a quegli insegnamenti che il tutore gli aveva dato finché era accanto a lui in carne ed ossa. Nel libro cito la lettera in cui il Professore stesso conferma questa cosa assieme alla citazione dallo studioso che maggiormente si è occupato di esplorare il rapporto tra i due a livello biografico, J.M.F. Bru nel suo J.R.R. Tolkien e Francis Morgan: una saga familiare (Milano, Edizioni Terra Santa, 2018)».

Il libro si chiude con un parallelismo tra Tolkien e Papa Francesco. Perché lo hai inserito e perché lo hai fatto nelle Conclusioni?

«In realtà non è niente di che, e spero che dal libro si evinca. Almeno nelle conclusioni e non nel corpo del testo, dove si trovano le vere tesi del libro, mi piaceva mostrare come la Chiesa contemporanea viva ancora certi temi che ispirarono Tolkien e che ne innervano gli scritti. Tolkien non la pensava come Papa Francesco né Papa Francesco la pensa come Tolkien. Un eventuale endorsement dell’uno all’altro non è solamente impossibile ma anche inarricchente: l’insegnamento di Tolkien non riceve nessun pregio supplementare da un plauso del Papa così come ciò che dice il Papa stesso non acquisisce maggior valore alla luce di una eventuale concordia con il Professore di Oxford. Come dici bene, si tratta di un parallelismo. In quanto tale, non è in grado di dire più di quel che è, cioè che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare problematiche che anche Tolkien aveva affrontato e che tali problematiche così come le soluzioni nelle parole del Papa hanno una certa somiglianza con Tolkien. Questo dimostra la grande attualità per la fede di questo autore: tutto qua. Il che non è poco, certo, ma non vorrei che fosse travisato e anche qui usato ideologicamente, dato che questo Papa è molto popolare: è molto discusso, specialmente negli ambienti cattolici dai Cattolici con la “C” maiuscola, e ancor più è citato a sproposito da chi la pensa in modo diametralmente opposto a lui. Tali sono non cattolici e non credenti che lo tirano per la giacca e interpretano le sue parole in modo da metterle a servizio delle loro tesi».

Come credi verrà accolto questo lavoro dalla comunità tolkieniana e quali sono i tuoi programmi di studio per il futuro?

«Come ho già detto prima, temo molto le letture ideologiche. Oltre a queste, temo anche una generale levata di scudi da parte dell’establishment della critica tolkieniana, che io affronto a tutto campo e cui non risparmio ragioni e torti. Temo che il libro non piacerà a taluni studiosi, anche cattolici, che oggi godono di una certa fama e che non hanno mai criticato l’approccio della compresenza o quello sintetico relativamente alla questione della fede dell’autore e del paganesimo/cristianesimo dei suoi scritti. Spero ovviamente che non sarà così, perché vorrei dialogare e aprire un cammino di crescita e collaborazione con tutti. Dipende da quanta apertura alla novità troverò, nonché dal numero di persone che cambieranno idea o non temeranno di entrare nel merito e iniziare un dibattito nuovo su temi nuovi, invece che rimanere sulle vecchie e accomodanti posizioni.

Ripongo molte delle mie speranze nelle persone semplici, che intuiscono il senso degli scritti tolkieniani ma non hanno parole per esprimerlo e vivono quindi nel silenzio, subendo i venti della critica, che non capiscono e non condividono ma che non hanno strumenti per contraddire. Non solo in loro: anche negli impensabili, in quelle persone che non diresti mai ma che invece credono davvero in certe idee. Penso soprattutto ai tanti che sono in ricerca della verità e che, per questo motivo, sono in grado più di tanti altri di mettersi in ascolto. Spero inoltre che il mio libro possa essere di aiuto per tutte quelle timide persone che temono di sbilanciarsi e di iniziare “il santo viaggio” della fede per motivi razionali.

Insomma, il mio libro non è rivolto ad altri che agli Hobbit, i veri Hobbit, coloro che lo sono nel cuore, non perché vivono in campagna in case sotto terra, ma perché sanno di essere delle piccole creature in un mondo molto vasto… che è la cosa che dice Gandalf a Bilbo alla fine proprio de Lo Hobbit e che secondo me descrive realmente cosa significa essere uno o una Hobbit. I defunti Dante Valletta e Italo Benati erano tali, ed è alle persone come loro che dedico specialmente il mio libro. Quanto avrei voluto poter consegnare loro una copia e dedicarglielo da vivi lo sa solo il Signore. Se non si è Hobbit come erano loro, lo ripeto ora con parole diverse rispetto a prima, leggere Tolkien è inutile. Meglio leggere altro, andarsi a fare una passeggiata o guardarsi i film!

Per il futuro non ho un programma di studi. Ho un programma di vita che mi porterà ad entrare nel seminario diocesano di Ancona. Come penso si evinca dal libro, i miei studi sono un percorso di vita. Ergo, è dalla mia vita che emergeranno le nuove riflessioni e i nuovi studi. Vorrei approfondire l’epistemologia, la storia della scienza, il grande problema storiografico-culturale del positivismo, certi autori come Collingwood e Barfield, Newman, i grandi autori della teologia cattolica… e questo nel mezzo del fatto che devo ancora trovare una strada nella vita. Sono fiducioso nel fatto che sarà al servizio di Dio, ma c’è ancora da verificare se sarà come prete o altrimenti. Vediamo. Io mi affido e vado avanti, e lo faccio come tanti personaggi tolkieniani. È questo uno degli aspetti che sottolineo di più nel mio libro: quando parlo di Gandalf che si affida a Dio in merito al viaggio della Compagnia dopo la sua dipartita a Moria, questa è un’esperienza che vivo io e una meditazione spirituale che mi sostiene nel mio personale viaggio verso ciò che il Signore vuole per me».

Bene, grazie di cuore, Giuseppe, per la tua disponibilità, la bellissima chiacchierata e per questo preziosissimo dono che finalmente è a disposizione di tutti.

SCHEDA LIBRO
Collana: Le Vie dell’Anello;
Autore: Giuseppe Scattolini;
Uscita: luglio 2022;
Prezzo: € 30,00;
Formato: 17×24;
Pagine: 348;
ISBN: 978-88-31447-28-7.

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