di Giuseppe Scattolini
Negli ultimi due anni l’Italia tolkieniana è stata letteralmente travolta da un problema non nuovo, ma che mai si era imposto con tanta urgenza: quello, attenzione, non delle traduzioni, ma della traduttologia, cioè della scienza della traduzione. Infatti, nel nostro paese l’esperienza tolkieniana nacque cinquanta anni fa attraverso una traduzione dalla storia travagliata e problematica, quella di Vittoria Alliata di Villafranca del Signore degli Anelli. Essa è stata rimaneggiata varie volte, prima dalla stessa Alliata nel passaggio da Astrolabio a Rusconi, poi da Quirino Principe, curatore di Rusconi medesima, ed infine dalla Società Tolkieniana Italiana, che all’epoca reincaricò Principe di apportare ulteriori ritocchi al testo.
La traduzione di Vittoria Alliata, al pari delle traduzioni delle altre opere tolkieniane, non è mai stata esente da critiche, ma, ciononostante, non si era mai posto il problema traduttologico, cioè quali fossero i criteri scientifici più adeguati a tradurre Tolkien. Oggi questo problema si pone per via dell’uscita della nuova traduzione del Signore degli Anelli a cura di Ottavio Fatica. La sua traduzione, infatti, è nei criteri esattamente opposta a quella di Alliata.
Due rapidi esempi: Alliata, traducendo, ha preferito approcciarsi avvicinando lo stile a quello più noto agli italiani, cioè quello di Dante. La stessa arcaicità del testo tolkieniano viene riprodotta tramite lo stile della prosa della traduzione. Fatica, al contrario, ha asciugato la prosa rendendola più simile a quella della lingua inglese, mentre fa mostra dell’arcaicità grazie all’utilizzo di termini italiani desueti e citazioni dotte sparse per il testo in modo, come è stato dimostrato dagli studiosi, abbastanza casuale. La stessa cosa Fatica fa con i regionalismi.
Questa inversione di marcia mostra come il problema traduttologico sia di capitale importanza, sempre che si abbia un qualche interesse nell’informare ed avere cura delle persone che possono leggere solo in traduzione. Chi non si interessa di traduttologia dicendo che è cosa di secondaria importanza e che una traduzione vale l’altra, dimostra una grande ignoranza e di non avere a cuore il popolo tolkieniano, che viene usato solamente come pubblico presso cui vantare i propri successi.
Il caso italiano è emblematico di quello che accade in tutto il mondo. Il grande vuoto che abbiamo notato è la totale mancanza di una messa a tema del problema della traduttologia in qualsiasi ambiente tolkieniano. Di conseguenza, abbiamo voluto organizzare un Call for Papers internazionale che compensasse questa gravissima mancanza. Il fine è sia di informare e sensibilizzare chi legge Tolkien direttamente in lingua originale rispetto ai problemi che vivono gli appassionati degli altri paesi, sia di ricercare e proporre metodi e criteri tratti dai testi di Tolkien per valutare la bontà o meno di una traduzione. Si porrà così anche una grande pietra di inciampo sulla strada di ogni futuro traduttore, che non potrà non confrontarsi coi problemi e le soluzioni che porteremo alla luce.
Il Call for Papers si chiama “Tolkien traduttore: indagini di traduttologia tolkieniana” per due motivi: il primo è che Tolkien stesso fu un traduttore e tradusse diverse opere, senza contare che rispetto al legendarium disse di esserne il traduttore e non lo scrittore. Il secondo motivo è che egli diede dei criteri in base a cui tradurre i suoi testi: lo scritto più famoso in merito è la Nomenclatura del Signore degli Anelli, pubblicata nel volume di Hammond e Scull The Lord of the Rings: A Reader’s Companion. Quanto egli ci tenesse ad essa possiamo leggerlo tutti nelle Lettere. Una raccolta di saggi su Tolkien traduttore, dunque, ambisce a tracciare una linea di demarcazione tra le idee dell’autore e quelle dei traduttori e dei curatori delle sue opere, soprattutto oggi che Tolkien non può più difendersi né impedire scelte traduttive improprie quali quelle che poté vedere essere fatte ai suoi testi e che proprio nelle Lettere denuncia.
L’esistenza di una simile raccolta di saggi fatta con questo metodo è in un certo senso proposta dallo stesso Tolkien, laddove nella Nomenclatura del Signore degli Anelli scriveva: «È desiderabile che il traduttore legga l’Appendice F e segua la teoria ivi intesa». Vediamo un esempio molto molto chiaro:
In qualche caso l’autore, agendo da traduttore di nomi elfici già concepiti o usati in questo libro o altrove, si è dolorosamente impegnato nel produrre un nome nella Lingua Comune che sia tanto una traduzione che anche (all’orecchio inglese) un nome eufonico in uno stile inglese familiare, anche se non esiste realmente in Inghilterra. Rivendell [Gran Burrone secondo Alliata, Valforra secondo Fatica, Forraspaccata secondo Conte] è un esempio di successo, in quanto traduzione del Grigio-elfico Imladris “Valle della Fenditura”. È auspicabile tradurre tali nomi nella Lingua della Traduzione, poiché lasciarli inalterati disturberebbe l’accuratamente concepito schema della nomenclatura ed introdurrebbe un elemento inspiegato privo di un posto nella storia linguistica finzionale del periodo. Ma ovviamente il traduttore è libero di concepire un nome nella Lingua della Traduzione che sia adatto al senso e/o alla topografia: non tutti i nomi della Lingua Comune sono traduzioni precise di quelli in altre lingue.
La prima indicazione fortissima che ci dà Tolkien è che l’autore ha agito da “traduttore di nomi elfici”. Significa non solo che il traduttore verso la propria lingua, la “Lingua della Traduzione”, debba tenere conto di questo, ma anche che sarebbe auspicabile una conoscenza delle lingue elfiche stesse per arrivare a una comprensione più profonda del testo tolkieniano. Dato che lo abbiamo preso come emblematico: nel caso italiano le lingue elfiche non sono mai state valorizzate. Nella traduzione di Alliata non potevano esserlo, perché all’epoca non si conoscevano. Oggi, tempi in cui le lingue elfiche sono state rese note e vengono studiate, non solo il nuovo traduttore Ottavio Fatica non ne ha tenuto conto, ma addirittura ritiene che siano una perdita di tempo, un gioco che fa Tolkien per prendere in giro il lettore, quando al contrario per lui erano cosa estremamente seria. In questo caso è stata sufficiente una riga di Tolkien per mostrare come un traduttore dei suoi testi si sia completamente disinteressato delle idee dell’autore che andava a tradurre.
Il secondo elemento che l’autore mette in rilievo in merito ai criteri della sua traduzione è quello eufonico: Tolkien preferiva la resa del suono a quella del significato “filologico”. Anche qui cadono le rivendicazioni di filologicità che possono presentare i traduttori e i curatori delle traduzioni, perché secondo Tolkien non è questo un criterio traduttologico da tenere in considerazione in prima istanza, ma solamente in secundis.
Il punto immediatamente seguente, il terzo, riguarda la coerenza della traduzione. Tolkien non avrebbe sicuramente approvato i cambiamenti presenti nella nomenclatura della traduzione Alliata rivista da Principe, dove ci sono i “Baggins” accanto ai “Serracinta”, né i salti della traduzione di Fatica che passa dai “Took” ai “Brandaino”: secondo l’autore, infatti, una traduzione deve essere coerente con se stessa, pena l’inserimento di elementi inspiegati privi «di un posto nella storia linguistica finzionale del periodo».
Secondo Tolkien i problemi traduttologici non sono di secondaria importanza, perché ne va della coerenza del Mondo Secondario e di conseguenza della sospensione dell’incredulità. Significa che traduzioni incoerenti tirano il lettore fuori della storia ed impediscono, dunque, di fruire appieno della narrazione. Non solo: per capire la metodologia traduttiva proposta da Tolkien sembra che sia necessaria anche una conoscenza del saggio Sulle Fiabe e della poetica dell’autore, altrimenti sarebbero ignoti i concetti di “Mondo Secondario” e “sospensione dell’incredulità”. Ecco un altro criterio, dopo la conoscenza delle lingue elfiche, che secondo Tolkien designa un traduttore ideale dei suoi testi.
Inoltre, se i criteri traduttologici indicati dal Professore servono alla coerenza della narrazione e alla poetica che la tiene insieme, violarli significa violare la narrazione stessa, cioè manomettere il testo. Un traduttore non può evitare di mettere del suo nella traduzione e di lasciare fuori dei significati e dei rimandi presenti nel testo originale, certamente ma c’è una grossa differenza tra il farlo inconsapevolmente o sotto obbligazione circostanziale e il farlo, invece, in modo perfettamente consapevole e deliberato. In questo secondo caso il traduttore sta imbrogliando e agendo in modo disonesto, e consegna al lettore all’oscuro dell’originale un testo da lui contraffatto per scelta.
Ora, elenchiamo e spieghiamo brevemente le proposte per questo Call for Papers (qui il comunicato ufficiale), i cui contributi dovrebbero indagare:
- Le metodologie traduttive di cui Tolkien fece uso nelle sue traduzioni e che egli stesso stabilisce nella saggistica, con particolare attenzione al saggio Tradurre Beowulf;
- I criteri traduttivi che Tolkien diede ai traduttori delle sue opere, in special modo nella nomenclatura e nelle Appendici de Il Signore degli Anelli;
- L’utilizzo di tali metodologie e criteri nelle traduzioni delle opere di Tolkien nella lingua del proprio paese;
- La possibilità di applicare tali metodologie e criteri nelle future traduzioni delle opere di Tolkien nella lingua del proprio paese.
Il primo suggerimento concerne l’analisi delle traduzioni e della saggistica tolkieniani, specialmente Tradurre Beowulf, dove l’autore parla proprio di traduttologia. È questa una novità negli studi tolkieniani. Nel secondo punto invece si propone di enucleare e interpretare i criteri traduttivi che Tolkien richiedeva ai traduttori che si sarebbero occupati delle sue opere.
Tramite questa prima ricerca di natura teorica, secondo noi curatori dovrebbe sopraggiungere una parte applicativa, cioè la critica delle opere in traduzione già pubblicate o la proposta di una serie di strategie per meglio applicare in futuro i metodi di Tolkien alle traduzioni. Questa parte applicativa ha da una parte la finalità di informare e diffondere nelle persone una sana consapevolezza in merito alle traduzioni di cui usufruisce, mentre dall’altra è rivolta ai traduttori medesimi che d’ora in avanti dovranno applicarsi alle opere tolkieniane e di conseguenza si troveranno nelle circostanze di dover decidere se e quali strategie applicare.
Così si conclude il Call for Papers:
Il Call for Papers è internazionale e aperto ai Tolkieniani di tutto il mondo: è richiesta e auspicata la partecipazione di linguisti e traduttori da ogni parte del globo. I saggi verranno pubblicati in due lingue, inglese e italiano, da case editrici accuratamente scelte. Coloro i quali avessero bisogno d’assistenza in merito alla traduzione del proprio saggio dall’italiano all’inglese e viceversa possono contattare i curatori. Chiunque desideri pubblicare il presente volume nella propria lingua, è incoraggiato a farlo scrivendo ai curatori e prendendo accordi con essi a tal fine.
La lunghezza massima dei contributi è di circa 6500 parole o 40 mila caratteri, note, bibliografia e spazi non inclusi nel computo. Si richiede l’invio degli abstract di massimo 300 parole o 2000 caratteri entro e non oltre dicembre 2021; la consegna dei saggi è prevista per maggio 2022. I saggi andranno scritti secondo i criteri editoriali che verranno indicati ai partecipanti via e-mail. Le citazioni non devono superare il 15% del conteggio di parole/caratteri totali dell’articolo. Il materiale coperto da copyright va evitato a meno di avere il permesso di pubblicazione.
Note tecniche a parte, questa raccolta di saggi è internazionale perché quello traduttologico è un tema che ci coinvolge tutti ed unisce i tolkieniani di tutto il mondo in una grande famiglia. Almeno, dovrebbe essere così: i problemi di uno dovrebbero essere i problemi di tutti. Questa raccolta di saggi è pensata e propone una mentalità nuova che porta la già coesa e amichevole comunità tolkieniana a un livello diverso. Secondo noi, è arrivato il momento di diventare veramente amici. È ora di “uscire fuori dalla Contea” e di incontrare il mondo.
In generale i tolkieniani hanno il sogno di vivere nella Terra di Mezzo, come fosse una terra beata e senza tempo. Chi sceglie di non occuparsi dei problemi che tra l’altro solleviamo in questo Call for Papers, non potrà che costruire un’illusione fondata sulla fuga del disertore, non sulla fuga del prigioniero, con finalità non tolkieniane ma private, dando vita all’ennesimo sfruttamento del nome dell’autore che smette di essere un letterato per diventare un parco divertimenti di cui usufruire a piacimento. Mi sento di citare nuovamente, penso qui non a sproposito, le parole di Gildor Inglorion a Frodo mentre lui e i suoi amici hanno appena cominciato il viaggio che li porterà molto lontani dalla Contea:
«Ma la Contea non appartiene solo a voi», disse Gildor. «Altri l’hanno abitata prima degli Hobbit, ed altri ancora l’abiteranno quando non ci sarete più. Il mondo si estende tutt’intorno a voi: potete rinchiudervi in un recinto, ma non potete impedire per sempre al mondo di penetrarvi».
Personalmente do a queste parole questo significato: non possiamo illuderci di costruire dei paradisi in terra perché non funzioneranno mai. Il mondo esterno vi penetrerà sempre: inutile tapparsi gli occhi e fare finta di niente. Costruire una Contea in cui abitare fisicamente, ma che poi non entri nel cuore, è una illusione che si crea a scopo commerciale e idolatrico. Avere la Contea nel cuore significa prendersi cura di quanto Tolkien ha scritto, amarlo sul serio e fare in modo che plasmi le nostre vite prendendoci cura gli uni degli altri come fratelli e sorelle, senza distinzioni di natura ideologica né nazionalistica: il Call for Papers è internazionale perché ha come scopo anche la creazione di una comunità tolkieniana a livello mondiale che sia una fraternità che condivida valori e intenti.
La vera Contea è quella in cui un modesto giardiniere parte per un’avventura e, dopo essersi occupato del giardino altrui, torna nel suo e lo fa diventare il più bello e splendente che si sia mai visto.