“Beowulf”: quale edizione scegliere?

di Emilio Patavini


Le edizioni del Beowulf sono molte, anzi moltissime. Basti pensare che, solo in area anglofona, «dal 1900, abbastanza sorprendentemente, si conta in media una nuova traduzione ogni due anni»[1], riporta Howell D. Chickering Jr., G. Armour Craig Professor di Lingua e Letteratura presso l’Amherst College, Massachusetts. E le edizioni sono in continuo aumento: dall’editio princeps di Grímur Jónsson Thorkelin sino alla più recente traduzione di Maria Dahvana Headley (Beowulf: A New Translation, 2020) in chiave femminista. Lo stesso Tolkien, secondo il saggio Tolkien’s Library, era in possesso di «diciassette tra edizioni o traduzioni del Beowulf, per esempio, tra cui la propria traduzione, pubblicata postuma nel 2014», che Oronzo Cilli riporta precisamente: Clark Hall, Crossley-Holland, Dobbie, Earle, Grein, Grundtvig, Heyne, Holder, Holthausen, Kemble, Klaeber, Sedgefield, Strong, Thorkelin, Tolkien (2014), Wrenn, Wright D., Wyatt.

Il Beowulf è un poema che nel corso del tempo si è prestato a «diverse riscritture letterarie, grafico-fumettistiche e cinematografiche»[2]: si parla di ben tre adattamenti cinematografici (Beowulf, 1999; Beowulf & Grendel, 2005; La leggenda di Beowulf, 2007), accanto a numerose riscritture moderne, come il classico Grendel (1971), romanzo di John Gardner che rinarra in prima persona la storia del Beowulf dal punto di vista del “mostro” (pubblicato in Italia con il titolo L’orco nel 1991; ora fuori catalogo).

Questo articolo si propone di passare in rassegna le edizioni italiane del Beowulf per venire in aiuto di chi volesse avvicinarsi per la prima volta a questo poema e scegliere l’edizione che più fa per sé. Le edizioni italiane del Beowulf possono essere considerate come l’una complementare all’altra, e tenendo conto di tali specificità, chi fosse interessato a una lettura più o meno approfondita del grande poema anglosassone può così scegliere l’edizione più vicina alla proprie esigenze di lettore, appassionato o studioso. Questo articolo, dunque, non si rivolge solamente a una platea di  tolkieniani, ma allarga lo sguardo a chiunque mostri interesse per questo poema in particolare o più in generale per la letteratura germanica medievale, di cui il Beowulf è uno degli esempi più alti a noi giunti (non a caso, Tolkien lo definì il «massimo capolavoro dell’arte poetica in antico inglese»[3]).

Disclaimer: non essendo un filologo ma un semplice appassionato, qualsiasi errore o imprecisione segnalata sarà utile per migliorare la qualità dell’articolo.

A seguito dell’introduzione, della descrizione del testo originale Cotton Vitellius A. XV, sopravvissuto in un unico manoscritto, e dell’ Editio princeps di Grímur Jónsson Thorkelin, del 1815, il lettore troverà le presentazioni delle edizioni del Beowulf susseguitesi in Italia:

Introduzione

Per introdurre il lettore a questa serie di recensioni, avrei potuto enumerare i numerosi collegamenti tra il Beowulf e l’opera tolkieniana (Lo Hobbit è l’esempio che più risente della fonte beowulfiana), ma ho preferito concentrare questa introduzione su un tema di fondo che accomuna le due opere, e che è stato notato per la prima volta da Noel ne La mitologia di Tolkien (ed. Ghibli, 2021; p. 9), per poi essere esposto in maniera più approfondita e analitica da Tom Shippey nel capitolo VII del suo saggio The Road to Middle-earth. La tesi di Shippey, poi riportata anche nell’Introduzione di Christopher Tolkien ai Racconti Ritrovati, fa riferimento alla «qualità letteraria che Tolkien valorizzava più di tutte»[4]. Scrive Tom Shippey: «Qualità che [Il Signore degli Anelli] possiede in abbondanza è la beowulfiana “impressione di profondità”, creata, proprio come nell’epica antica, da canti e digressioni quali il lai di Aragon [sic] su Tinúviel, le allusioni di Sam Gangee [sic] al Silmaril e alla Corona di Ferro, la narrazione di Elrond  a proposito di Celebrimbor e moltissimi altri casi. Questa, tuttavia, è una qualità de Il Signore degli Anelli, non delle storie che vi compaiono. Esporle in modo autonomo e aspettarsi che esse conservino il fascino derivato dall’ambientazione più vasta costituirebbe un tremendo errore, un errore cui Tolkien sarebbe più sensibile di qualsiasi uomo vivente»[5]. Shippey prosegue notando poi come Tolkien riscontrasse questo “senso di profondità” «nel Beowulf, nell’Eneide o anche in Macbeth, Sir Orfeo o le Fiabe dei Grimm. In tutte queste opere, c’era la sensazione che l’autore sapesse più di quanto non stesse raccontando, che dietro la storia immediata ci fosse un mondo coerente, consistente, profondamente affascinante di cui non aveva il tempo (allora) di parlare»[6].

Tolkien parla di questo particolare espediente narrativo che accomuna la sua opera al Beowulf in almeno tre occorrenze: in Beowulf: The Monsters and the Critics, pietra miliare degli studi beowulfiani, definisce l’«impressione di lontananza (impression of depth)» come «un effetto e una giustificazione dell’utilizzo di episodi e allusioni ad antichi racconti, in prevalenza più oscuri, più pagani e più disperati della storia che è in primo piano»[7], o ancora come l’«illusione della realtà e della prospettiva storica» (p. 30) ed «effetto di antichità» (p. 60). In una sua lettera, scrisse che «[p]arte del fascino del S.d.A. sta, io credo, nelle impressioni di una storia più ampia sullo sfondo: un fascino come quello che si prova osservando in lontananza un’isola inesplorata, o vedendo le torri di una città distante che brillano al sole oltre la nebbia. Arrivare lì significa distruggere la magia, a meno che non si svelino ancora nuove prospettive irraggiungibili»[8]. Che Tolkien avvertisse questa impressione già durante la stesura de Il Signore degli Anelli, nel ‘45, lo dimostra un’altra sua lettera, indirizzata questa volta proprio al figlio Christopher, futuro curatore delle opere postume del padre: «Una storia deve essere raccontata, o non esiste alcuna storia, eppure le storie più toccanti sono quelle che non vengono raccontate. Penso che Celebrimbor ti colpisca perché trasmette all’istante un senso di infinite storie non raccontate»[9].

Se la trama di un’opera come Il Signore degli Anelli non ha mai smesso di affascinare i lettori da più di sessanta anni è perché parte di quel fascino affonda le proprie radici in storie che non ci vengono raccontate per intero, ma di cui possiamo scorgere in lontananza sagome e barlumi, che Tolkien menziona soltanto, senza raccontare per intero (per non «distruggere la magia»), come piccole tessere di un mosaico più grande. Tutto questo chiama il lettore con voce antica e solenne, ha il sapore degli antichi miti e leggende, gli fa percepire, quasi visceralmente, che quei racconti risalgono a un piano anteriore rispetto al tempo della storia in primo piano di migliaia e migliaia di anni: conferiscono, insomma, profondità alla storia.

Credo che intendesse questo C.S. Lewis, dopo aver letto il dattiloscritto completo de Il Signore degli Anelli, in quella meravigliosa lettera di apprezzamento datata 27 ottobre 1949[10] in cui osservò che il magnum opus tolkieniano eccelleva in almeno due punti: «grande sub-creazione» e «la costruzione cui mirava Tasso (ma che non conseguì allo stesso modo) che era quella di combinare la varietà di Ariosto con l’unità di Virgilio. Anche in gravitas […] Infatti (inaspettatamente), l’aroma  [italiano nel testo; nota mia] generale mi sembra più simile all’Eneide che a ogni altra cosa, malgrado tutta la tua Nordicità. Ciò è in parte dovuto […] al fatto che suggerisci un enorme passato dietro l’azione».

MS Cotton Vitellius A XV

Il testo originale è sopravvissuto in unico manoscritto, il Cotton Vitellius A. XV, conservato presso la British Library di Londra, ma che può essere consultato tramite il facsimile digitale dell’Electronic Beowulf, curato da Kiernan. Si pensa che il poema sia stato composto tra VII-VIII secolo, anche se il dibattito sulla datazione è ancora aperto; mentre fu copiato in prosa attorno all’XI secolo da due copisti che si diedero il cambio al v. 1939b. Il testo è scritto in scriptio continua ed è diviso in quarantatré sezioni numerate o fitts. Il Beowulf fa parte del secondo codice del manoscritto, il Nowell Codex, preceduto da tre opere in prosa che hanno per filo conduttore il tema del meraviglioso e del mostruoso (una Passione di san Cristoforo, gigante cinocefalo; Le meraviglie d’Oriente e la Lettera di Alessandro il Grande a Aristotele), e seguito da Giuditta, frammento in versi sulla decapitazione di Oloferne. Il manoscritto probabilmente apparteneva a una biblioteca monastica dispersa in seguito alla dissoluzione dei monasteri del 1540. Proprio nel XVI secolo il manoscritto venne acquistato dall’antiquario Laurence Nowell, pioniere degli studi di antico inglese, e in seguito passò a far parte della collezione di Sir Robert Bruce Cotton. Ma nel 1731, prima che ne venisse fatta alcuna trascrizione moderna, il manoscritto fu gravemente danneggiato dall’incendio scoppiato ad Ashburnham House, Westminster, che ospitava la collezione di manoscritti medievali di Cotton: il fuoco bruciacchiò i margini delle pagine del manoscritto, che cominciarono così a sgretolarsi.

Come nota Michael D.C. Drout in J.R.R. Tolkien Encyclopedia, «non è chiaro se [Tolkien] avesse mai toccato con mano o visto di persona il manoscritto del Beowulf (in alcuni suoi appunti inediti per le lezioni risalenti agli anni ‘20 o ‘30 dice di non aver visto il manoscritto ma di essersi basato sull’edizione in facsimile curata da Julius Zuptiza [sic])»[11].

Ecco il testo originale dei primi undici versi del Beowulf, seguendo l’edizione di Klaeber con alcuni miei piccoli aggiustamenti, che farà da campione testuale per le varie traduzioni:

«Hwæt, wē Gār-Dena            in gēardagum,
þēodcyninga   þrym gefrūnon,
hū ðā æþelingas          ellen fremedon!
            Oft Scyld Scēfing       sceaþenaþrēatum,

monegum mǣgþum    meodosetla oftēah,
egsode eorl[as],          syððan ǣrest wearð
fēasceaft funden;        hē þæs frōfre gebād,
wēox under wolcnum weorðmyndum þāh,
oð þæt him ǣghwylc  ymbsittendra

ofer hronrāde  hȳran scolde,
gomban gyldan;          þæt wæs gōd cyning!»

Editio princeps di Grímur Jónsson Thorkelin (1815)

De Danorum rebus gestis secul. III & IV. Poëma Danicum dialecto Anglosaxonica Ex Bibliotheca Cottoniana Musaei Britannici. Havniæ: Th. E. Rangel, 1815.

Nel 1705 Humphrey Wanley citò per la prima volta il Beowulf nel proprio catalogo, contenuto in Linguarum veterum septentrionalium thesaurus grammatico-criticus et archæologicus (Oxford 1705), e lo descrisse come un poema su un eroe danese che combatteva contro i re di Svezia. Il Beowulf venne poi citato in una nota a piè di pagina della History of English Poetry (1776) di Thomas Wharton. Fu proprio il riferimento a un eroe danese ad attirare l’attenzione dell’islandese Grímur Jónsson Thorkelín, Regius Professor di Antichità all’Università di Copenhagen e archivista di re Cristiano VII di Danimarca, mentre nel 1786 era in cerca di antichità danesi al British Museum[12]. Thorkelín era più interessato ad appropriarsi del poema per fini patriottici che non ai suoi meriti letterari; così ne fece copiare due trascrizioni, la seconda forse copiata da lui stesso. Thorkelín iniziò a lavorare a un’edizione del Beowulf, che vide la luce nel 1815, anche se dovette ricominciare daccapo il progetto quando, nel 1807, tutto il suo materiale andò distrutto nel bombardamento di Copenhagen, da parte dei britannici. L’edizione di Thorkelín, benché piena di errori, è importante non solo perché è la prima edizione del poema, ma soprattutto per via del fatto che le trascrizioni fossero state eseguite prima del significativo deterioramento dei margini delle pagine del manoscritto. L’edizione conteneva una trascrizione del poema e una traduzione parallela in latino eseguita in versi brevi che seguono i semiversi dell’antico inglese. J.R. Clark Hall ha calcolato che si trovano quasi 300 errori di trascrizione nei primi 500 versi lunghi del Beowulf, con una media di un errore ogni 1,7 versi lunghi; Kemble scrive di non aver trovato “cinque versi consecutivi nell’edizione di Thorkelin in cui qualche grave mancanza nella trascrizione o nella traduzione non riveli la sua completa ignoranza della lingua anglosassone” (Kemble, The Anglo-Saxon Poems, pp. xxix-xxx). Se da un lato quella di Thorkelín è la prima traduzione completa del Beowulf, dall’altro emerge la sua impreparazione come studioso e la sua scarsa conoscenza della poesia anglosassone, in un periodo in cui la moderna filologia germanica doveva ancora venire alla luce. Tra gli errori che si contestano alla sua edizione, Thorkelín non divide correttamente i morfemi (we Gar-Dena, al v. 1, viene trascritto wegar Dena), non riconoscendo i composti e travisando il senso originale e l’uso dei termini antico inglesi (traduce il Hwæt iniziale, richiamo all’ascolto, come se fosse una variante di hu “come”).

Come nota Oronzo Cilli in Tolkien’s Library, nel 1923 «Tolkien è stato abbastanza fortunato da acquistare una copia del Beowulf di Thorkelin (la prima edizione completa di quel poema) per sette scellini».

«Quomodo Danorum
In principio
Populus Regum
Gloriam auxerit,
Quomodo principes
Virtute promoverit.
Sæpe Scyldus Scefides
Hostes turmis,
Multis nationibus
Dignas sedes auferens
Terruit. Dux
Postquam fiebat,
Miseris obviis
Solatium mansit.
Crevit sub nubibus,
Honore virguit,
Donec ille quilibet
Accolarum
Ad cetorum vias
Suum cogeretur.
Tributum solvere.
Ille fuit bonus Rex.»

(Beowulf, vv. 1-11b)

Le prime traduzioni italiane

Il legame tra l’Italia – pur non essendo un paese germanico – e la letteratura anglosassone può essere fatto risalire al Vercelli Book del tardo decimo secolo, conservato  nell’omonima città italiana[13]. Ma per la prima traduzione parziale in italiano del poema anglosassone, bisogna attendere sino al 1833, che è comunque una data molto precoce. A questo proposito, credo sia d’obbligo spendere qualche parola sul suo primo traduttore, Giuseppe Pecchio, economista e patriota del Risorgimento italiano. Fu compagno di studi di Alessandro Manzoni al collegio dei padri somaschi di Merate, allievo di Vincenzo Monti all’Università degli Studi di Pavia – dove si laureò in legge nel 1806 –, amico di Ugo Foscolo (con cui abitò per un periodo durante l’esilio a Londra) e di Stendhal. Collaborò al Conciliatore con articoli di carattere economico e, in seguito al fallimento della cospirazione dei Federati (1820-21), fu costretto all’esilio, che lo condusse in Inghilterra nel 1823. Nella sua nuova patria, Pecchio ottenne la cattedra di lingue moderne al Manchester College di York, dopo aver concorso anche per la cattedra di italiano e spagnolo al Trinity College di Dublino. Pecchio divenne così «l’esule più autorevole dell’emigrazione politica italiana e anche quello ritenuto più vicino alla politica inglese»[14]. Morì il 4 giugno 1835 a Brighton, lasciando incompiuta la sua ultima opera, la Storia critica della poesia inglese, ispirata alla History of English poetry di Thomas Warton.

La prima parte di questo ambizioso progetto, che va dalle origini della lingua sino a Chaucer, fu dato alle stampe nel 1833 a Lugano. Quest’opera contiene la prima traduzione del Beowulf in una lingua romanza. Si tratta, come si è detto, di una traduzione parziale, che consiste in un riassunto del poema e in estratti basati sull’edizione di Sharon Turner del 1820, ripetendone errori e incomprensioni. Per dirla con le parole di Marijane Osborn: «Basing his work on Sharon Turner’s History (1820), Pecchio evaluates the poem as the most important work known in Anglo-Saxon, valuable presumably for its representation of antiquities since he does not consider it worth much as literature. He offers an almost word-for-word translation of Turner’s partial version, duplicating the mistakes found in his original, sometimes adding more, and burdening Italy with an erroneous impression of Beowulf for the next eighty years»[15].


«Come abbiamo noi ne’ tempi andati de’ prischi Danesi udito la gloria dei re di Theod? Come que’ duci splendevano nella forza? – Spesso il figlio di Scilda ritornò vincitore dalle schiere nemiche, da più popoli sconfitti. – Il conte era temuto. – Ei crebbe sotto il cielo; egli fiorì in onori, finché ognuno che regna sulle sponde del mare gli obbedì, gli pagò tributo.»

(Beowulf, vv. 1-11a; Storia critica della poesia inglese, p. 45)

Seguono alla traduzione di Pecchio (1833) la parafrasi di Giuseppe Schuhmann del 1882 (Beovulf: Antichissimo poema epico de’ popoli germanici, “Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere, Scienze morali e politiche 7: 25-36), seguita nel 1883 dalla prima traduzione completa del Beowulf (“Beowulf: Poema epico Anglosassone del VII secolo,” Atti della Real Accademia lucchese di scienze, lettere ed arti, Vol. 22, (Lucca 1883), 197-379), a opera di Giusto Grion, insegnante e studioso triestino che realizzò una traduzione letterale in metro imitativo che Frederick Klaeber, nella sua edizione “classica” (p. cxxviii, Bibliography), commenta così: «Loosely imitative measure; faithful; with introduction».

Al 1915 risale La canzone di Beowulf. Poema epico anglo-sassone del VI secolo; versione italiana con introduzione e note (Palermo 1915, pp. 145) di Anna Benedetti (traduzione in prosa dell’edizione di Wyatt; Finnsburh  incluso). Nel 1934 Federico Olivero, Professore di Lingua e Letteratura Inglese all’Università di Torino ed esperto dell’opera di Edgar Allan Poe – noto per non essersi presentato alla tesi di laurea su Walt Whitman di Cesare Pavese –, pubblicò un’edizione del Beowulf (Erma, Torino 1934), con una traduzione letterale in prosa basata sul testo di Chambers[16]. Ma è tra il 1940 e 1941 che assistiamo a una pubblicazione italiana piuttosto curiosa: Beowulf: Leggenda cristiana dell’antica Danimarca (testi di Enrico Basari, disegni di C. Caesar). Si tratta di una fantasiosa riscrittura in chiave cristiana del poema – una “cineepopea eroica” come lo definì il fumetto cattolico per ragazzi che lo pubblicò, Il Vittorioso –, che fonde il Beowulf con elementi nuovi e originali, come la storia di Galahad e dei romanzi arturiani o l’assunzione in cielo dell’eroe, una volta morto.

Del 1959 è infine la traduzione in prosa di Cesare Giulio Cecioni (Beowulf. Poema eroico anglosassone, G. Malipiero, Bologna 1959), ordinario di Lingua Inglese presso l’Università di Firenze, basata sull’edizione di Klaeber.

Passeremo ora in rassegna le successive traduzioni nelle recensioni che seguono.


Note:

[1] H. Chickering, “Beowulf and ‘Heaneywulf’”, Kenyon Review, 24 (1), Winter 2002,p. 161 (trad. mia)

[2] G. Marmora, Il mito di Beowulf. Risonanze antiche e moderne, Aracne editrice, Canterano 2021,p. 15

[3] J.R.R. Tolkien – C. Tolkien (a cura di), Il medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004,p. 89

[4] T. Shippey, The Road to Middle-earth. Revised and Expanded Edition, Houghton Mifflin Company, Boston-New York 2003, p. 228 (trad. mia)

[5] J. R. R. Tolkien, C. Tolkien (a cura di), Racconti Ritrovati, Bompiani, Milano 2013, pp. 7-8

[6] T. Shippey, The Road to Middle-earth. Revised and Expanded Edition, cit., p. 229 (trad. mia)

[7] J. R. R. Tolkien, C. Tolkien (a cura di), Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2004, p.60

[8] J. R. R. Tolkien, H. Carpenter (a cura di), Lettere 1914/1973, Bompiani, Milano 2018, p. 529

[9]Ivi, p. 178

[10] Cfr. C. McIlwaine, Tolkien: Il Creatore della Terra di Mezzo, Mondadori, Milano 2020, pp. 90-91

[11] M.D.C. Drout, “Medieval Manuscripts” in M.D.C. Drout (ed.), J.R.R. Tolkien Encyclopedia: Scholarship and Critical Assessment, Routledge, New York-London 2007, p. 404 (trad. mia)

[12] Mi è indispensabile per la ricostruzione della storia e delle critica legata all’edizione di Thorkelín il saggio di Hugh Magennis, Translating Beowulf: Modern Versions in English Verse, D.S. Brewer, Cambridge 2011, pp. 41-51

[13] F. Giusti, “Il ‘Beowulf’ nel Novecento: il fumetto e il romanzo”, in Linguistica e filologia, vol. 23 (2006), p. 215

[14] E. Riva, “Giuseppe Pecchio” in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 82 (2015)

[15] M. Osborn “Translations, Versions, Illustrations” in Robert E. Bjork – John D. Niles, A Beowulf Handbook, University of Nebraska Press, Lincoln 1997, p. 346

[16] Per le traduzioni italiane ho consultato S. B. Greenfield – F. C. Robinson, A Bibliography of Publications on Old English Literature to the end of 1972, Wipf & Stock, Eugene (Oregon) 1980,pp. 129-134 e la Annotated List of Beowulf Translations curata da Marijane Osborn per il sito dell’Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies.