La seconda metà della vita di Christopher,
a servizio dell’opera del padre
Cosa si celava dunque nelle pieghe del tempo che sprofonda nei canti di Il Signore degli Anelli, nei molti riferimenti ad un passato ancora più remoto, che fa esclamare a Frodo alle parole di Elrond al Consiglio sulla Guerra dell’Ultima Alleanza «Voi ricordate?» con insopprimibile stupore.
Per i lettori agognanti Il Silmarillion, l’opera pubblicata nel 1977 rispondeva alla loro curiosità, ma Christopher, che ne ricordava ogni brano davvero fin quasi ai primi vagiti, almeno da quando cominciò a chiamarsi “Silmarillion” nei titoli autografi del padre, il Racconto dei Gioielli, esso era come l’ansimante richiamo all’ampiezza del respiro che la mitologia del padre non poteva che esigere, respiro di cui lui aveva sempre partecipato. Le Cronache degli Eldar e degli Edain, degli Elfi che videro la Luce delle Terre Imperiture e dimorarono con le Potenze del Mondo e degli Uomini loro amici fino alle 3 Grandi Storie, la gesta amorosa di Beren e Lúthien nel riscatto dalla prigionia, un attimo di vittoria, la tragedia di I Figli di Húrin che senza successo tentano di padroneggiare la propria sorte e la rovina nel cedere dell’ultima resistenza al Nemico Oscuro del Mondo in La Caduta di Gondolin. Tutto a convergere nel viaggio della liberazione di Eärendil il Marinaio, protagonista della prima poesia della mitologia originale di J.R.R. Tolkien prima della Grande Guerra (nel settembre 1914) e poi padre di Elrond, il quale ha appreso che non può esserci una battaglia definitiva prima dell’Ultima. La materia di Númenor, l’Ovesturia in cui la prepotenza atlantidea degli Uomini ne inabissò la massima grandezza e il tentativo degli Elfi di risanare la Terra-di-mezzo con il potere del Nemico, trattenendo la vita presente in un’imitazione dello splendore di ciò è stato di là dal Mare. Elrond risponde a Frodo.
Ho visto tre ere a ovest del mondo, molte sconfitte e molte vittorie inutili.”
Per scoprire che, secondo le parole del padre di quand’era in Sudafrica.
Tutto quello che sappiamo, ed anche questo in larga parte per diretta esperienza, è che il male agisce sempre con grande potenza e successi continui — inutilmente: preparando sempre e solamente il terreno affinché il bene inaspettatamente germogli.”
Sessant’anni per John Ronald di incessante ri-elaborazione delle storie principali e degli annali. Nel rendersi conto che il suo compendio del 1977 non riesce nell’intento di comunicare la grandezza e la complessità dell’opera paterna, piuttosto ne fornisce una versione (parziale e discutibile) Christopher si cimenta in un lavoro colossale, presentare gran parte dei manoscritti così come essi sono, in un corpo di propri commenti analitici a corredo: prende il via nel 1980 l’impresa coi Racconti Incompiuti, poi, dal 1983 al 1996 i 12 volumi di The History of Middle-earth. Al termine di quest’impresa, il materiale pubblicato sulla mitologia originale di J.R.R. Tolkien è pressoché quintuplicato e percorre le più sorprendenti forme letterarie: racconti brevi ora tendenti ad uno stile solenne, ora a sfiorare la fiaba, interconnessi da sfondi mitici che volevano confluire nelle mitologie europee per poi distanziarsene radicalmente, poesie brevi e canti di migliaia di versi in metro germanico o romanzo, annali sul modello medievale e cronache dettagliate e poi ancora romanzi di tutt’altro tipo come viaggi nel tempo, trattati linguistici, sociologici, etnografici, dispute teologiche e filosofiche… Chi altri avrebbe potuto occuparsene se non chi aveva veduto e ascoltato l’autore nell’opera fin dai primi ricordi che poteva trattenere? Ad oggi questo lavoro di curatela postuma ha degli analoghi ma nessun eguale e non si è fermato. Due delle Grandi Storie hanno ricevuto la dimensione editoriale che il suo autore avrebbe voluto: I Figli di Húrin nel 2007 e dieci anni dopo, pochi mesi fa, Beren e Lúthien.
Un secolo della Terra-di-mezzo, 60 anni di appartenenza al padre e 93 al figlio. Se il padre aveva cominciato a scrivere storie per dare ai propri linguaggi inventati un popolo che potesse parlarli (il suo primo e permanente afflato creativo era infatti la glossopoiesi, di cui la mitopoiesi era, per così dire, un corollario), l’eco di questa voce è stato sostenuto in armonia dall’accordo filiale. E Christopher, da filologo cresciuto in braccio ad un filologo, non ha dimenticato tutto il resto della vasta produzione del padre ora occupandosene personalmente ora affidandola, in tempi recenti, ad altri studiosi che hanno illuminato la comprensione dell’opera e della vita di Tolkien: la ricostruzione delle storie perdute (“filologia creativa”) accanto alle opere di saggistica e di traduzione vere e proprie, ma anche le molte illustrazioni che da appassionato disegnatore e pittore ha realizzato nell’arco della sua vita. La dedizione di Christopher all’opera del padre non ha mai avuto riserve, il suo scopo era ed è di restituirne l’autenticità e la completezza, o almeno la massima completezza possibile. Per spiegare quella che non avremo più timore di definire vocazione, ci vengono in aiuto le parole di Christopher Tolkien medesimo:
Per quanto strano possa sembrare, io sono cresciuto nel mondo che lui ha creato.
Per me, le città del Silmarillion sono molto più reali di Babilonia((Christopher Tolkien, intervista di Raphaëlle Rérolle per Le Monde, 5 luglio 2012.)).”
Ecco dunque il senso di occuparsi di Nargothrond anziché di Babilonia, o della Winchester di Sant’Alfredo il Grande, capitale dell’Wessex anglosassone. In tutto e per tutto Christopher partecipava e partecipa di quella definizione di Fantasia che J.R.R. Tolkien dichiarava essere pieno esercizio della ragione umana:
Sono non soltanto consapevole, ma anche lieto del fatto che esistano legami etimologici e semantici tra fantasia e fantastico: con immagini di cose che non solo “non sono realmente presenti”, ma invero non possono essere affatto trovate nel nostro mondo primario, o delle quali si suppone che non possano esservi trovate. Nell’ammettere questo, non consento affatto a un tono spregiativo. Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al mondo primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente.
Naturalmente la Fantasia ha dalla sua un vantaggio: quella stranezza che attrae. Ma questo vantaggio è stato volto contro di lei, e ha contribuito alla sua cattiva reputazione. A molta gente non piace subire un’ “attrazione”. Non gradiscono alcuna intromissione con il Mondo Primario, o quei rapidi sguardi a esso, loro familiari. Essi, dunque, con stupidità, e anche con malignità, confondono la Fantasia con il Sogno, nel quale non vi è Arte alcuna; e con il disordine mentale, in cui non c’è neppure alcun controllo: con l’illusione e con l’allucinazione. Ma l’errore, o la malignità, che viene generato dal turbamento e dal conseguente disgusto, non è la sola causa di questa confusione. La Fantasia ha anche uno svantaggio essenziale: è difficile da raggiungere. La Fantasia può essere, penso, non meno ma più che sub-creativa; e in ogni caso si constata nella pratica che “l’intima consistenza della realtà” è tanto più difficile da produrre, quanto più le immagini e la ristrutturazione del materiale primario sono dissimili dalla struttura reale del Mondo Primario stesso. È più facile ottenere questo tipo di “realtà” con materiale più “sobrio”. Troppo spesso quindi, la Fantasia resta senza sviluppo: viene e venne utilizzata superficialmente, o solo con parziale serietà, o per semplice decorazione: resta mera “fantasticheria”. Chiunque erediti lo straordinario strumento del linguaggio umano può parlare del sole verde. Molti possono quindi immaginarlo o descriverlo. Ma questo non basta ancora – per quanto possa già essere qualcosa di più potente di molti “schizzi dal vero” o di molte “scene di vita” che ricevono plauso letterario. Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e sicuramente avrà bisogno di una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. Pochi tentano imprese così difficili. Ma quando queste imprese vengono tentate e quando sono in una certa misura riuscite, allora abbiamo una rara conquista artistica: della vera arte narrativa, l’elaborazione di una storia nella sua modalità primaria e più potente.
[…]
Probabilmente ogni scrittore, nel costruire un mondo secondario, una fantasia, ogni sub-creatore desidera in qualche misura essere un vero creatore, o spera di tracciare un disegno sulla realtà: spera che la peculiare qualità di questo mondo secondario (anche se non tutti i suoi particolari) siano derivati dalla Realtà, o confluiscano in essa. Se quindi egli consegue una qualità che può ben essere sintetizzata dalla definizione da dizionario «intima consistenza della realtà», è difficile concepire come questo possa accadere, se l’opera stessa non partecipa in qualche modo della realtà. La particolare qualità della «gioia» nella Fantasia ben riuscita può quindi essere spiegata come uno sguardo improvviso alla realtà, o verità, sottesa. Non è solo una «consolazione» per i dolori di questo mondo, ma una soddisfazione, e una risposta alla domanda: «E vero?» La risposta a questa domanda che io ho dato in primo tempo era (abbastanza giustamente): «Se hai costruito bene il tuo piccolo mondo, sì: è vero in quel mondo»((J.R.R. Tolkien,Sulle Fiabe in Il Medioevo e il Fantastico.)).”
Nel paragone dell’opera narrata come realtà creazionale, Tolkien arrivava alla prova, tramite l’eucatastrofe, il gioioso capovolgimento delle sorti, della narrazione evangelica, Eucastrofe Vera e Suprema in cui il Creatore penetra in modo permanente la Storia. È sempre scrivendo a Christopher nel 1944 che dice:
Per venire a cose meno importanti: mi resi conto di aver scritto una storia che vale con Lo Hobbit, quando leggendola (dopo che era abbastanza matura perché io me ne staccassi) provai improvvisamente in modo intenso l’emozione “eucatastrofica” all’esclamazione di Bilbo: «Le aquile! Stanno arrivando le aquile!». […] E nell’ultimo capitolo dell’Anello che ho appena scritto spero che noterai, quando l’avrai ricevuto (sarà presto in viaggio) che la faccia di Frodo diventa livida e Sam si convince che è morto, proprio quando Sam comincia a sperare.”
– Lettera del 7-8 novembre 1944 a Christopher Tolkien.
Stando alla stessa gioia che provoca la forza eucatastrofica delle opere postume di Tolkien, possiamo tranquillamente sorvolare sul sogno, albergo del disordine, che Christopher fece non molto tempo dopo aver pubblicato Il Simarillion in cui, trovandosi nell’ufficio del padre ad Oxford, lo vide osservare con apprensione una copia del libro e Christopher fu terrorizzato al pensiero che scoprisse chi fosse il “colpevole”. Per quanto errato potesse essere (e in gran parte lo era e lo è), non possiamo che riconoscere – certi che il padre faccia altrettanto – come ogni gesto compiuto da quando l’eredità di queste storie gli è stata totalmente consegnata è stato rivolto all’onorarle in ogni modo e nei migliori possibili. Un’opera incessante, un’opera d’amore che è stata un continuo ritorno all’origine dell’amore che l’ha generato, prima ancora che fosse generato. Nella sua ultima fatica Beren e Lúthien Christopher ricorda che fu proprio a lui che il padre, qualche mese prima di morire, raccontò l’episodio che lo ispirò a comporre il primo racconto in una lettera commovente:
Ora che ho novantatré anni questa è (presumibilmente) la mia ultima curatela nella lunga serie degli scritti di mio padre, molti dei quali mai pubblicati prima, e ha una natura in qualche modo curiosa. Questo racconto è stato scelto in memoriam, in quanto presenza radicata nella sua vita. Pensava spesso all’unione di Lúthien, che chiamava “la più grande tra gli Eldar”, con Beren il mortale, ai loro destini, alle loro seconde vite.
[…]
In una lettera a me indirizzata che parla di mia madre, scritta un anno dopo la morte di lei, cioè un anno prima che morisse lui stesso, mio padre descrive un senso di perdita opprimente ed esprime il desiderio di far incidere Lúthien sotto il nome di lei, sulla tomba. Nella lettera, citata a pagina 27 di questo libro, ritorna alle origini del racconto di Beren e Lúthien, una piccola radura boschiva piena di fiori di cicuta nei pressi di Roos, nello Yorkshire, dove lei danza. Scrive: «Ma la storia è finita male, sono stato abbandonato e io non posso invocare l’inesorabile Mandos».”
IF this is your very last, THANK YOU, from the deepest of our heart, for everything, for every single one of this more…
Pubblicato da Tolkien Italia su Lunedì 29 maggio 2017
La storia invece non è finita, proprio perché da quell’amore nacque una famiglia e in essa un erede tanto simile all’autore da poter dire, insieme a Frodo e Sam (che proprio di Beren e Lúthien discutevano):
«Pensandoci bene, apparteniamo anche noi alla medesima storia, che continua attraverso i secoli! Non hanno dunque una fine i grandi racconti?».
«No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi… o fra breve».”