di Cecilia Drudi
Il simbolo della donna in Tolkien
Le critiche rivolte a Tolkien, riguardo alla poca considerazione per i personaggi femminili nella sua opera, si rivelano del tutto devianti dal suo intento, se si pensa all’altissima considerazione che egli aveva del sesso femminile nel mondo Primario e in quello Secondario da lui sub-creato. Sebbene si possa concordare sul fatto che il numero dei personaggi femminili sia assai minore di quello dei personaggi maschili, questo non significa che il ruolo dei primi sia meno importante dei secondi. Come è già stato detto in articoli precedenti, tutte le opere di genere epico, che parlano di guerre e casate, sono costellate inevitabilmente da un maggior numero di uomini. Nonostante questo, il ruolo della donna non dev’essere sottovalutato in quanto essa accompagna, guida, si prende cura e motiva l’uomo a essere coraggioso, valoroso e a tener fede alle sue promesse. Forse, nella sua opera, Tolkien non ha descritto il rapporto tra donne o la psicologia femminile in modo approfondito, se paragonato agli autori dei romanzi moderni, ma questo perché, ancora una volta, si ribadisce che la sua opera è epica, quindi comunica un messaggio attraverso il simbolo. Il termine simbolo deriva dal verbo greco symbàllo (metto insieme) composto da syn (insieme) e bàllo (metto). Esso è infatti l’unione fra un segno, una traccia lasciata da un gesto umano, che deve essere visibile o sensibile, e un significato non sensibile, che va oltre quel segno; unisce il significante al significato. I miti e le fiabe sono una correlazione di simboli a livello razionale, emotivo e fisico, essi costituiscono una semantica dei simboli[1], ovvero l’articolazione di un discorso simbolico per far parlare i segni e trasmettere un messaggio.
Partendo da questa premessa si può arrivare molto velocemente al cuore dell’argomento, quindi alla figura femminile o al segno della donna, essere sensibile, e il significato che dall’autore le viene dato, il quale la fa diventare un simbolo nel senso alto e unico del termine. Riprendendo una riflessione di Stratford Caldecott ne Il Fuoco segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien, si riporta che:
La salma di Tolkien riposa di fianco a quella della moglie nel cimitero di Wolvercote, poco a Nord di Oxford, e l’incisione sulla lapide reca su sua richiesta i nomi di Beren e Lúthien. Il romanzo di questi grandi eroi della Prima Era è una visione poetica dell’autobiografia spirituale e psicologica dello stesso Tolkien, che termina con un viaggio nel mondo sconosciuto della morte. Se la storia di Beren e Lúthien fu tanto importante per Tolkien da farne incidere i nomi sulla propria lapide, sembra probabilmente che per lui Beren e Lúthien fossero gli archetipi originari rispettivamente della razza degli uomini e di quella degli elfi. Il fatto che il primo sia maschio e la seconda femmina indica che egli attribuì agli Elfi quelle qualità che associava per lo più alle donne: delicatezza, creatività, musicalità, bellezza, memoria infallibile, profonda saggezza, fedeltà duratura. Se questo è vero, la dinamica maschile-femminile che alcuni critici non hanno riscontrato nell’opera di Tolkien è al contrario centrale per la storia e per l’intero ciclo di storie, anche se in forma nascosta. Questo aspetto viene esplorato attraverso il rapporto storico fra Elfi e Uomini, “intrecciati” come sono attraverso molti episodi chiave in cui avviene un matrimonio benedetto dagli dèi. L’amore della bellezza che Tolkien simboleggia nell’amore per gli Elfi e per Feeria – e dunque, spiega, un amore per l’incantesimo, l’immaginazione e la creatività – è intimamente correlato all’amore fra uomo e donna. Tutto questo ha molto senso nella vita stessa di Tolkien, poiché la sua scrittura creativa inizia all’epoca della relazione amorosa con Edith ed è profondamente legata a lei e ai loro figli, ai quali leggeva moltissime storie[2].
Si nota, dunque, come il simbolo della donna trascenda il problema di essere rappresentata con un numero minore di personaggi rispetto all’uomo, anzi, questo può persino essere giustificato dal fatto che la carica simbolica sia molto più elevata e concentrata in un unico personaggio invece di molti.
La storia nascosta di Gilraen
Gilraen, ancora giovanissima d’età rispetto alla tradizione Dúnedain in cui le donne erano solite unirsi in matrimonio, sposa Arathorn e un anno dopo dà alla luce il loro unico figlio, Aragorn. Ella rimane vedova molto presto, dopo che il marito viene ucciso dagli orchetti “da una freccia che gli trafisse un occhio”[3], a soli sessant’anni. In seguito, madre e figlio conducono la loro vita a Granburrone, sotto la protezione degli Elfi. In questo luogo Aragorn, appena ventenne, incontra Arwen Undómiel e se ne innamora. Il ruolo di Gilraen, nella storia, è nascosto e secondario e tuttavia non superfluo. Ella sa che il figlio da lei portato alla luce è l’unica speranza (Estel, è il nome datogli dagli Elfi e significa speranza) per i discendenti di Isildur di ritornare sul seggio di Gondor e sa che egli è, dopo la ricerca del perduto Anello, l’unico vero timore del Nemico. Gilraen è dotata di una di quelle caratteristiche di cui si è parlato prima, che Tolkien attribuisce all’elficità e quindi anche alla donna, quella della lungimiranza. Infatti, quando il figlio cede alle sue continue insistenze (anche questa caratteristica femminile) e confessa l’amore per Arwen Undómiel, ella dice al futuro Re che il suo percorso sarà amaro e arduo, senza tuttavia rivelare altro dei suoi presagi. Qui si riconoscono la delicatezza e forza d’animo della madre dell’erede di Isildur, virtù che in lei sussistono allo stesso tempo e si alimentano vicendevolmente. Gilraen non omette le sue previsioni al figlio per risparmiargli dolore e quindi per pietà materna; è al contrario molto onesta con lui. Quello che vuole evitare è la disperazione nel cedere all’oscurità, pre-occupandosi di avvenimenti non ancora accaduti. Lei stessa, infatti, ha portato alla luce la Speranza degli uomini che vede ora davanti ai suoi occhi, seppur incarnata in un giovane ancora inesperto. Durante i primi anni di lotta contro Sauron, Aragorn si unisce agli uomini di Rohan e Gondor, mantenendo tuttavia nascosta la propria identità. Nel frattempo Gilraen prende congedo da Elrond, non avendo più alcun motivo di trattenersi a Granburrone, e si sposta nell’Eriador. Aragorn torna di rado dalle sue lunghe e pericolose missioni, tuttavia l’episodio che narra del suo ultimo incontro con la madre è molto intenso e commovente. Quando ella predice al figlio che sarà l’ultima volta che lo vedrà, non avendo più la forza per affrontare il male e l’oscurità che si infittiscono sulla Terra di Mezzo, Aragorn prova a confortarla dicendole che c’è sempre una speranza. In questo preciso momento Tolkien le fa dire queste parole: “Onen i-Estel Edain, ù-chebin estel anim”[4], “Ho dato speranza agli uomini, non conservo speranza per me”.
Gilraen ha dunque ceduto alla fine dei suoi giorni alla disperazione, alla tentazione del Nemico, che attraverso il suo potere fa vedere solo oscurità, contro la quale ci si sente disarmati, afflitti e impotenti, senza più fare appello alla speranza e alla fede che questa si avveri? Ovviamente no. Tolkien con questa frase non la fa cadere nell’ombra, anzi la nobilita, poiché queste ultime parole da lei pronunciate non racchiudono quella disperazione che travolge invece la mente di sire Denethor, sovrintendente di Gondor, il quale vedendo il potere dell’oscurità decide di togliersi la vita, ma nascondono (come è sempre nascosta negli animi nobili) una profonda umiltà. Se esaminiamo attentamente le sue parole, Gilraen non esprime il rimpianto di aver donato questa speranza, al contrario afferma di aver compiuto interamente il compito affidatole dalla trama del racconto. Ha trasmesso interamente ciò che ha ricevuto con un gesto d’altruismo senza eguali, ovvero non conservando nulla di questo bene per se stessa. Ha superato la sua prova per quanto ardua. Ella sa di aver partorito la speranza, tuttavia non si insuperbisce, al contrario riconosce di essere stata lo strumento[5] indispensabile per questo avvenimento. Spesso accade che noi seminiamo e qualcun altro raccoglie e proprio qui è nascosta da un velo misterioso e bellissimo la vera umiltà, quella che permette di agire non per la gloria personale, ma per quella di un’altra persona, una persona amata, nel caso di Gilraen del proprio figlio. E, altrettanto spesso, sono le gesta senza rinomanza, le più semplici e naturali – come l’amore materno verso Aragorn in particolare e per la discendenza in generale – che cambiano le sorti di un grande racconto e di una grande storia. Il bene che si fa non è mai sprecato anche se di quell’opera buona non se ne godono i benefici in prima persona[6].
Da un atto eroico nasce un eroe
Nella storia di Gilraen, come in tutta la storia narrata ne Il Signore degli Anelli sussiste un pensiero anti-sentimentale, se ci si riferisce al senso moderno del temine. Lo stesso Tolkien parla di un “erroneo sentimentalismo”[7] nelle fiabe contemporanee. Per tutti i suoi personaggi infatti non esiste un Lieto Fine che si riduce ad un esemplificativo “e vissero per sempre felici e contenti”, ma un improvviso capovolgimento felice che si contrappone alla tragedia, la buona catastrofe: “dal momento che non sembra vi sia una parola per esprimere questo opposto – lo chiamerò Eucatastrofe”[8]. Sono storie in cui la sofferenza e persino la morte sono necessari per vivere autenticamente la gioia, una gioia intensa come il dolore e che nega la sconfitta finale e universale.
In una lettera al figlio Michael, Tolkien scrive: “Il legame tra padre e figlio non è costituito solo dalla consanguineità: ci deve essere un po’ di ‘aeternitas’. Esiste un posto chiamato Paradiso dove le opere buone iniziate qui possono essere portate a termine; e dove le storie non scritte e le speranze incompiute possono trovare un seguito”[9]. Questa concezione del rapporto genitoriale con i figli, deriva certamente dall’esempio che l’autore riceve dalla madre Mabel, la quale, nelle ristrettezze in cui si ritrova dopo la conversione al cattolicesimo, viene da lui descritta come “consunta dalla persecuzione, dalla povertà e dalla conseguente malattia, nello sforzo di trasmettere a noi bambini la Fede”[10]. Il sacrificio della madre di Tolkien per i suoi figli si riflette nel rapporto tra Gilraen e Aragorn. In lei, infatti, è completamente assente ogni forma di egoismo e soprattutto quello di tipo generazionale. Non esiste una prevaricazione, anzi, questo autentico personaggio femminile si è consumato per amore del figlio sino a spegnersi. È un atto eroico per quanto semplice e naturale – se visto da occhi esterni, da spettatore – poiché Gilraen ha fatto la sua parte nel racconto anche se non sarà lì per vedere come andrà a finire. Infatti “non terminano mai i racconti […] sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte”[11]. Tuttavia, ogni parte è collegata ad un’altra e per quanto possa essere ristretta, nel caso di Gilraen una comparsa, lascia un segno indelebile nella storia del suo Mondo Secondario ed è incoraggiante pensare, direbbe Gandalf, che lo stesso vale per ogni nostra parte nel mondo Primario.
Note
[1] Il termine semantica deriva dal greco semantikos (significato), derivato da sema (segno), e dunque indica lo studio e l’elaborazione dei significati.
[2] S. Caldecott, Il Fuoco Segreto. La ricerca spirituale di J.R.R. Tolkien, Lindau, Torino 2009, p. 137.
[3] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2002, p. 1260.
[4] Ivi, p.1266.
[5] È necessario chiarire il termine utilizzato: strumento. Si pensi alla musica. Per produrre musica è necessario uno strumento, senza il quale nessun suono potrebbe essere prodotto. Per riprodurre il Preludio per violoncello in G. M., di J.S. Bach è necessario il violoncello. Qualsiasi tipo di violoncello potrebbe andare bene, questo si, ma comunque uno è necessario. Chi sceglie lo strumento? Il musicista. E forse ci avviciniamo al cuore della questione. Qualsiasi donna che avesse sposato Arathorn avrebbe dato alla luce l’erede di Isildur, ma è stata scelta Gilraen tra le altre nelle trame della storia e, in questo senso, questo compito è stato affidato a lei.
[6] Spesso nella società postmoderna, accelerata, non si riconosce come utile un’azione che non abbia un ritorno immediato e per un beneficio personale. Si è perso il senso dell’attesa nel raggiungimento di uno scopo e, soprattutto, l’individuo contemporaneo “non fa nulla per procurarsi le tradizionali consolazioni della vecchiaia, la più importante delle quali consiste nel credere che le generazioni future continueranno la sua opera” (Ch. Lash, La cultura del narcisismo, L’individuo in fuga dal sociale in un’età d disillusioni collettive, Neri Pozza, Vicenza 2010, p. 110).
[7] J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, Milano 2012, p. 202.
[8] Ivi, p. 225.
[9] J.R.R. Tolkien Lettere 1914/1973, Bompiani, Milano 2018.
[10] Ivi, p. 561.
[11] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2002, p. 859.