Nella battaglia per il bene che c’è nel nostro mondo non siamo mai soli. Questo è palese in Chesterton, e nei suoi eroi che corrono a destra e a manca per mostrare quanto la realtà sia buona e che l’allontanamento da essa non può portare altro che il male. Questa realtà è buona, perché è ordinata; ed in quanto ordinata, secondo lo scrittore inglese, è palese frutto dl una volontà divina.
Chesterton lega la sanità dell’essere umano proprio al suo rimanere attaccati alla realtà, mentre la follia è il disancoramento dalla stessa.
Frodo alla fine del libro, fallirà. Nonostante il suo eroismo, i suoi tentativi di resistere al male ad un certo punto verranno meno, e nel momento in cui dovrà distruggere l’anello del potere, egli lo indosserà, diventando invisibile. L’anello verrà quindi distrutto da Gollum, una creatura che un tempo era un Mezzuomo; il quale, corrotto dall’anello prima delle vicende fin qui narrate, ne aveva seguito il portatore fino al vulcano dove l’anello doveva essere gettato. Frodo fa tutto il possibile per salvare il mondo, ma alla fine cede. Ciò che lo salva allora è la Misericordia, poiché Gollum gli strappa l’anello e, nel farlo, cade nella voragine del vulcano.
Questa Misericordia non arriva però dal nulla. Tolkien ci spiega, al riguardo, che:
«esiste la possibilità dl essere messi in una posizione al di la delle proprie forze. Nel qual caso (io credo) la salvezza dalla rovina dipenderà da qualcosa di apparentemente slegato: la santità generale (e l’umiltà e la pietà) della persona sacrificale»1.
Frodo viene salvato dalla Pietà che egli aveva avuto per Gollum in precedenza, ordinando che non venisse ucciso, nonostante avesse tentato di prendergli l’anello.
Quest’idea della Misericordia che salva le persone, si può intravvedere nel racconti dl Chesterton, e compare specialmente nelle tematiche delle Avventure di Uomo Vivo, dove è rappresentata dalla pistola di Innocenzo Smith. L’azione della Misericordia è quella dl intervenire a salvare l’uomo nel momenti in cui da solo non ce la può più fare, e la conseguenza sarebbe la sua morte definitiva. La salvezza però giunge solo con il sacrificio della vita precedente, che bisogna lasciar andare. La differenza tra i due scrittori sta nel fato che, per i personaggi di Chesterton, lasciar andare la vita precedente è come svegliarsi da un sogno in cui essi erano come intorpiditi; mentre, per i personaggi dl Tolkien, comporta l’abbandono a qualche cosa dl più grande dl loro: l’iniziativa del principio primo del bene, piuttosto che la ricerca di un’illuminazione. Dirà infatti Frodo, nel momento dl lasciare il suo grande amico Sam, alla fine del libro:
«sono stato ferito troppo profondamente, Sam. Ho tentato dl salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle»2.
Frodo è uno sconfitto, nei fatti; ma non perché non sapesse quale fosse il bene. Tuta la sua vita, infatti e le azioni precedenti alla sua sconfitta, erano state volte verso quel bene. È l’umiltà ad averlo salvato: la stessa umiltà di chi guarda il mondo con meraviglia e capisce di essere solo una piccola parte di esso. Chesterton compare indirettamente nelle pagine di Tolklen, ed è lo stesso scrittore a indicare come si manifesta questa presenza:
«viviamo in un mondo terribile, oscurato dalla paura, oppresso dal dolore […]. Chesterton una volta disse che è nostro dovere tenere alta la bandiera di Questo Mondo: ma per farlo, ora serve un patriottismo più risoluto e sublime di allora. Gandalf ha aggiunto che non sta a noi scegliere i tempi in cui nasciamo, ma che dobbiamo fare il possibile per ripararne i mali»3.
Più cupo forse di Chesterton, Tolkien ha però saputo offrirci una narrativa che ha scosso e fato innamorare milioni dl lettori in tutto il mondo. Un buon combattimento per tenere alta quella bandiera di cui aveva parlato Chesterton.
Francesco Perin
1 J. R. R. Tolkien, Lettere 1914/1973, pag. 382.
2 J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, pag. 1106.
3 J. R. R. Tolkien, Lettere 1914/1973, pag. 637.