di Gianluca Comastri
Una delle risposte che ricorrono con maggior frequenza in merito alla polemica attualmente in corso, circa l’opportunità di condurre e/o promuovere taluni studi su argomenti che si pretende di correlare al legendarium tolkieniano, rimanda in varie forme a leggersi (o rileggersi: ma l’intento di alcuni è sottintendere che chi sostiene certe posizioni non l’abbia capita, pertanto si implica con espediente dialettico che il soggetto non l’abbia nemmeno letta) la prefazione alla seconda edizione di The Lord of the Rings, firmata dal Professore stesso. In essa vi sono in effetti alcuni passaggi che vertono sull’annosa dicotomia tra le intenzioni dell’autore e la legittimità delle interpretazioni dei lettori. Per comodità, qui se ne riportano estratti dalla versione italiana pubblicata da Bompiani nel 2004, in seguito alla revisione del testo operata in collaborazione con la Società Tolkieniana Italiana.
Significato e messaggio dell’opera
Una naturale tendenza dei lettori, che siano alle prime armi o più navigati, è quella di indagare in merito al senso dell’opera o di individuare ciò che Tolkien intendeva realmente trasmettere ai lettori stessi. Queste le sue parole in merito:
Riguardo al significato profondo, o al “messaggio”, nell’intenzione dell’autore non ne ha alcuno. Non è allegorico né fa riferimento all’attualità.
Tolkien dava alle stampe queste righe nel 1966, pertanto testualmente afferma che Il Signore degli Anelli non conteneva riferimenti a ciò che era di attualità fino a poco più di metà del secolo scorso. Se possa essere o meno oggetto di riferimenti all’attualità di cinquanta o settanta anni dopo che tale dichiarazione fu messa per iscritto, dovrebbe essere dimostrato con prove il più possibile oggettive da parte di chi sostiene la tesi in questione. Poco più avanti, Tolkien torna sull’argomento con quest’asserzione:
Altre soluzioni possono essere trovate in accordo con i gusti di quelli che amano l’allegoria o il riferimento all’attualità. Io però detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni, e l’ho sempre detestata da quando sono diventato abbastanza vecchio e attento da scoprirne la presenza.
È dunque Tolkien stesso, non altri che si arrogherebbero il diritto di parlare in sua vece, ad affermare di non essere esattamente in sintonia con i tentativi di attualizzare un testo che, questo sì evidentemente, era stato scritto con intenti e finalità altre dal farne un puro e semplice manifesto della condizione umana al passare dei millenni.
Applicabilità o libertà del lettore
Il grimaldello con cui certuni intenderebbero scardinare il coperchio delle libere interpretazioni dell’opera, dando a ciascuna di esse dignità pari o comparabile con quella del testo originale, sta invece nel concetto sottostante che nella prefazione di Tolkien segue immediatamente la seconda citazione di poco sopra:
Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta che sia, con la sua svariata applicabilità al pensiero e all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; l’una però risiede nella libertà del lettore, e l’altra nell’intenzionale imposizione dello scrittore.
Alla lettera, il Professore scriveva dunque di detestare (sia pur con cordialità) l’allegoria e di preferirle la storia in quanto tale. Non intendeva imporre al lettore alcun tipo di steccato in cui racchiudere la storia, né alcun binario nella quale dovesse essere irrimediabilmente incanalata, né potrebbe essere diversamente: racconti fiabeschi, rinarrazioni di miti e scorci epici non possono che essere un terreno fertile su cui far germogliare l’immaginazione e l’intuizione di chi legge, o verrebbero meno alla loro natura. La libertà di chi legge in tal senso è sacrosanta e ad essa non possono essere messi vincoli, nemmeno in casi in cui chi legge sia intimamente convinto che gli Elfi debbano essere piccole creature con orecchie esageratamente appuntite e magari dal colorito verdognolo, o che i Troll debbano essere più umanoidi rispetto alle creature mugghianti ricoperte di squame come quelli descritti nella battaglia del Morannon.
Se però si intendesse, in modo surrettizio, che tale “libertà” implichi automaticamente una conclamata legittimità a priori di ciascuna di queste libere interpretazioni, si andrebbe manifestamente oltre il concetto di “applicabilità” sin qui esaminato – con le parole dell’autore dell’opera, peraltro. La libertà è la facoltà di agire e pensare in base al proprio arbitrio: quando la si applica in riferimento a un’opera letteraria scritta da un’altra persona, bisogna fare i conti col fatto che tale opera è stata concepita e realizzata con un determinato intento. Se dunque il proprio arbitrio non deve legittimamente essere soggetto a limiti per quanto attiene le immagini e le sensazioni che l’opera trasmette, l’assenza di limiti vale esclusivamente per la propria sfera privata e personale. Se, viceversa, di una data visione dell’opera si ritiene di formulare uno studio scientifico, tale studio deve tenere in somma considerazione il contesto dell’opera stessa e non dovrebbe mai anteporvi il proprio sentire privato: diversamente, il rischio è che a un autore si faccia dire ciò che si vuole indipendentemente dalle sue effettive intenzioni. Si potrebbe asserire, ad esempio (è capitato di imbattersi in opinioni simili in conversazioni informali), che in realtà il pronunciarsi esplicito di Tolkien contro l’allegoria vuole essere un deliberato depistaggio dal momento che Il Signore degli Anelli è manifestamente allegorico.
Che in un gruppo tematico, più o meno “grande” e più o meno “ufficiale”, vi sia la massima libertà nel discutere (civilmente e costruttivamente) praticamente ogni tipo di argomento, è sano e auspicabile. Un gruppo tematico un poco più strutturato, che intenda promuovere uno o più studi su un dato argomento, dovrebbe essere ben consapevole che un’azione culturale di tal fatta non costituisce solo un esercizio di libertà interpretativa, bensì attribuisce liceità e dignità a quell’argomento: la cosa ovviamente non può in alcun modo essere sottoposta a vincoli censorii, ma richiede una precisa assunzione di responsabilità a riguardo, per questioni di onestà intellettuale. Ciò vale particolarmente per quegli argomenti che si discostano sensibilmente dal contesto dell’opera studiata e commentata. Se poi l’operazione culturale è promossa dalla società che attribuisce a un autore la sua stessa presidenza in perpetuo, parificare l’applicabilità alle idee dell’autore stesso è mossa che andrebbe ponderata molto a lungo e molto a fondo.