Da “la Storia di Kullervo” a “I Figli di Húrin” 3/3

 

“Kullervo Rides to War”, illustrazione di Akseli Gallen-Kallela

 

Ne I Figli di Húrin il rapporto tra Fato (la maledizione di Melkor) e libero arbitrio sarà maggiormente sviluppata e accentuata, tanto che ogni situazione e ogni disastro potrebbe parere come il frutto avvelenato della maledizione, ma è altresì spiegabile attraverso le azioni di Turin e della madre che peccano di orgoglio e ciò li conduce alla perdizione. In primo luogo l’origine delle sventure dei personaggi si inserisce in un contesto più ampio: anche se di per sé innocenti tutti sono inseriti nel contesto della Caduta originaria che vede gli Elfi tentare di opporsi a Melkor, senza l’aiuto dei Valar, ma anzi, in qualche modo affermando orgogliosamente il proprio distacco e la propria volontà di autonomia. Húrin, il capostipite, è un uomo che si schiera con il Bene, comunque rappresentato dai Signori elfici; appartiene ad una nobile stirpe, che si eleva sempre più in saggezza e valore in contatto con gli Elfi. Quando viene catturato da Morgoth si rifiuta di tradire i propri amici e sfida lo stesso Signore delle Tenebre, dimostrando di non averne timore, per questo viene incatenato e costretto ad assistere impotente alla distruzione della propria famiglia causata dalla maledizione di Melkor ed attuata da Glaurung. Húrin non verrà mai meno, egli non implora pietà né per sé né per i suoi, mostrando così la propria nobiltà d’animo ed il proprio valore. Egli ha fatto quello che nessuno fin in fondo aveva osato: sfidare il Nemico, fino a ridergli in faccia. Eppure, pur nella sua grandezza, Tolkien sembra quasi suggerirci che gli manchi una qualità: la capacità di riconoscersi umile, non di fronte al male, quanto nei confronti delle proprie capacità di poter resistere ad esso. L’orgoglio dimostrato da Húrin è il segno della sua grandezza, ma non basta a salvarlo dal Nemico, non soltanto fisicamente, cosa che sarebbe ovvia, ma nemmeno lo lascia indenne di fronte alla sua perfidia, poiché osservando le vicende dolorose della sua famiglia, pur non volendo credere alle malvagie insinuazioni di Morgoth, ne cadrà in qualche modo preda, pur riuscendo a rendersi conto della loro falsità prima della fine. Figura eminentemente tragica, morirà disperato, seppur non vinto. L’orgoglio manifestato da Hurin diventa hybris in Túrin: egli si attribuisce il nome di Turambar – signore del proprio destino, mentre tutto ciò che gli accade ed i suoi stessi atti non fanno che condurlo a realizzare sempre più la maledizione. Anche la madre e la sorella si perdono proprio per la caparbia volontà di farcela da sole, di non ascoltare gli inviti alla prudenza che vengono loro rivolti. Così l’orgoglio diviene lo strumento di cui la maledizione può servirsi per giungere a compimento.
Nei Racconti incompiuti troviamo molti approfondimenti rispetto alla versione scarna ed essenziale contenuta nel Silmarillion, ed è a questi che farò riferimento. Il primo si intitola l’infanzia di Túrin: Tolkien non l’avrebbe scritto, se non l’avesse considerato essenziale per comprendere tutto ciò che accadrà successivamente. Il racconto descrive i rapporti tra Túrin ed i suoi famigliari: il ragazzo prova ammirazione per il padre ma non lo conosce bene, poiché è spesso lontano; ama molto la madre, ma Morwen ha un carattere brusco ed orgoglioso, dovuto anche alle dure sofferenze subite in passato e non è propensa a gesti d’affetto. Túrin viene descritto come simile alla madre nel carattere; più maturo della sua età non è un bambino che susciti tenerezza, anche se ne avrebbe un disperato bisogno poiché invece è estremamente sensibile, tanto che si impietosisce facilmente ed ama prendersi cura dei più deboli. In lui vi è anche il fuoco di suo padre, per questo può essere impetuoso e feroce, ma è lento a dimenticare le ingiustizie ed
a perdonare come la madre. Il suo amore è tutto per la sorellina più piccola; egli non è geloso nei suoi confronti benché palesemente sia la preferita dai genitori, ma anzi ama osservarla e proteggerla, vedendo in lei probabilmente quel temperamento solare che lo compensa. Quando la bambina muore per un’epidemia proveniente dalla volontà del Nemico, Túrin si dispera. Anch’egli si era ammalato, ma guarisce e quando chiede della sorella gli dicono che è morta. La madre tutta presa dal suo dolore che però non lascia sfogare non è in grado di consolarlo e di aiutarlo a rielaborare il lutto. La bambina era simbolo di innocenza e di allegria, con la sua morte il riso e la gioia se ne sono andati per sempre. Restano soltanto l’onore e la vendetta. “Urwen è morta e il riso si è spento in questa casa – rispose la madre- Tu, però vivi figlio di Morwen; e vive anche l’avversario che ci ha fatto questo” (p.88) Túrin non pronuncerà più il nome della sorella, ma continuerà a piangerla di nascosto. Quando Túrin ha otto anni, Húrin parte per la battaglia che verrà ricordata come delle innumerevoli lacrime per il suo esito disastroso: prima della sua partenza il padre lo mostra a tutti come il suo erede ed egli ne è orgoglioso e felice, ma ben presto giunge notizia della sconfitta e le terre di Húrin vengono invase da uomini rozzi e brutali. Túrin viene mandato in segreto nel Reame celato di Thingol e Melian, ma Morwen, ormai prossima al parto dell’ultima figlia concepita prima della partenza di Húrin rifiuta di partire. Il ragazzo si era nel frattempo sempre più legato alla madre e non vuole lasciarla, lei seppur lacerata dal dolore, non sa sollevare la sua angoscia. “Fu questo il primo dei dolori di Túrin” commenta Tolkien. Il secondo sarà quando dopo la nascita della sorella aveva sperato che la madre lo avrebbe raggiunto; infatti Melian aveva inviato messaggeri per convincerla a partire: “Melian infatti era saggia e previdente, e in tal modo sperava di allontanare il male che andava preparandosi nei pensieri di Morgoth. Morwen però non volle lasciare la sua casa il suo cuore essendo ancora immutato e forte il suo orgoglio”.1

Nel corso della narrazione Tolkien sottolinea varie volte che, se i personaggi avessero seguito i consigli di altri il loro fato avrebbe potuto essere diverso. Túrin dunque vive nel Doriath, accolto con tutti gli onori dal re che lo considera come un figlio adottivo, ma non riesce a liberarsi del proprio passato ed a vivere il presente, poiché il suo cuore è rimasto con la madre, senza la quale non può essere felice. Il terzo dolore sarà infatti quando il ragazzo ormai cresciuto, non potrà più avere notizie dei suoi, poiché Thingol dovrà smettere di mandare messaggeri in quanto le strade sono sempre più pericolose ed il Nemico ha aumentato la sua sorveglianza. Túrin prova rancore nei confronti di Thingol, dimenticando l’affetto che il re prova per lui, e va a chiedergli congedo, dichiarando di voler andare a combattere il nemico anche da solo. Di fronte agli ammonimenti ed ai richiami alla prudenza vede solo il proprio dolore ed il proprio orgoglio da cui è come accecato. Nei primi anni accetta di combattere con gli Elfi sulle marche di frontiera insieme all’amico Beleg, ma dopo qualche anno abbandonerà definitivamente la corte, in seguito ad uno scontro con un Elfo che lo disprezzava. Anche in questo episodio Tolkien mostra le sottili pieghe dell’animo umano: Túrin in effetti è stato provocato e la sua reazione è stata onorevole, la sua colpa non è nell’aver risposto alla provocazione, ma nel non aver confidato a nessuno il vero accaduto e nel non essersi fidato del giudizio del re. Certo, ogni avvenimento può essere spiegato come l’esito della maledizione e di un fato avverso, ma nello stesso tempo è il modo di essere di Túrin che fa sì che questa si realizzi. Durante la sua fanciullezza Turin è stato spesso accompagnato da una fanciulla elfica di nome Nellas, che Melian gli aveva posto accanto per consolarlo ed aiutarlo. Ella gli ha insegnato la lingua e gli usi degli elfi, così che il suo animo per un po’ si era risollevato, ma egli presto la dimentica. La fanciulla aveva però continuato a seguirlo di nascosto, così che è stata lei a scagionarlo davanti al Re, poiché aveva visto ciò che era accaduto; Quando Beleg gliene parla ,Túrin afferma di non riuscire a ricordarla e domanda perché lo sorvegliasse. Assai significativa è la risposta dell’Elfo per comprendere il dramma che agita l’animo del protagonista: “Perché, mi chiedi? Ma Túrin sei per caso sempre vissuto con il cuore e una parte della mente lontani? Quand’eri bambino scorrazzavi con Nellas nei boschi del Doriath” “È stato tanto tempo fa – disse Túrin_ o almeno lontanissima mi sembra la mia infanzia, e una nebbia la copre, salvo soltanto il ricordo della casa di mio padre nel Dor-lomin. Ma perché avrei dovuto scorrazzare con una fanciulla elfica? “Forse per imparare quel che poteva insegnarti- rispose Beleg- Ahimè figlio di uomini! Altri dolori si danno nella Terra di Mezzo che non siano i tuoi e ferite che nessuna arma ha inferto…2

Túrin è talmente chiuso nella sua sofferenza da dimenticare l’esistenza di chi gli sta accanto e lo ama a sua volta; una delle modalità , forse la più importante, per superare i traumi ed il dolore è proprio quello di rendersi conto del dolore degli altri; Túrin che da piccolo provava compassione nei confronti delle altre creature, ora è come anestetizzato e non riesce ad aprire il suo cuore, nemmeno con chi gli è più vicino. Lo stesso gli accade con Finduilas, figlia di Orodreth del Nargothrond, quando lo accoglierà nelle sue peregrinazioni successive. Túrin si affezionerà a lei, ma non potrà amarla davvero come lei lo ama, ossia con un sentimento adulto e maturo, perché il suo cuore continua ad essere prigioniero del passato. In tutte le figure femminili egli in fondo ricerca la sorellina perduta durante l’infanzia, che ha rappresentato per lui l’unico periodo veramente felice e la sola possibilità di gioia. “Una volta le disse –avevo una sorella, Lalaith così almeno io la chiamavo; e tu me la ricordi: Lalaith però era una bambina, un fiore giallo tra l’erba verde della primavera e se fosse sopravvissuta forse adesso sarebbe oppressa dal dolore. Ma tu sei regale, sei come un albero dorato; mi piacerebbe avere una sorella bella come te…” ma, continua Tolkien, pur apprezzando la compagnia della fanciulla non l’amava perché “la mente e il cuore di Túrin erano altrove, sulle rive di fiumi, in primavere da un pezzo trascorse”.3

Tutto ciò che sta tra la breve parentesi felice dell’infanzia e l’età adulta gli appare avvolto nella nebbia, come se egli non l’avesse vissuto. Date queste premesse, quando incontra davvero la sua seconda sorella che non ha mai conosciuto ma di cui conosce l’esistenza, i due non si riconoscono poiché Nienor ha perso la memoria per l’incantesimo di Glaurung, ma probabilmente entrambi inconsciamente possono solo innamorarsi l’uno dell’altro poiché entrambi ossessivamente alla ricerca della loro infanzia perduta. Anche Nienor infatti è stata sempre in qualche modo ostaggio e vittima del dolore della madre, poiché è nata dopo la morte della figlia più amata e l’allontanamento di Túrin. Essere chiamata “lutto” non è certo piacevole come augurio per un destino felice, inoltre la fanciulla è vissuta ascoltando da altri le imprese eroiche del fratello, senza aver conosciuto direttamente né lui né un padre di cui non ha nemmeno il ricordo. Non poteva quindi che innamorarsi di questo fratello magnifico, unica figura maschile conosciuta nell’infanzia e nella adolescenza, idealizzata e non presente fisicamente e perciò ancor più pericolosa. Quando lo vede per la prima volta dopo aver perduto la memoria: “le sembrò di aver trovato uno che aveva cercato nelle tenebre, e ne fu confortata4

Quando Túrin la chiede in sposa ella accetta poiché non può amare che lui, ma Brandir la mette in guardia perché presente un’ombra oscura e Niniel stessa a sentire il nome del fratello ha un presentimento. Allo stesso modo, quando dopo la morte della fanciulla Túrin non vuole accettare la verità e chiede all’elfo Mablung notizie della madre e della sorella, questi gliela descrive: “Era alta, gli occhi azzurri, i capelli d’oro fino, la versione femminile di Húrin. Non puoi averla vista!” E Túrin risponde: “E perché no? Ah già io sono cieco. Non lo sapevi? Cieco, cieco e fin dall’infanzia brancolo nella nebbia scura di Morgoth!5

Tolkien sembra quindi suggerire che i due sono sì prigionieri della maledizione e dell’incantesimo del drago, ma qualche segnale che avrebbe potuto forse allontanare la tragedia era presente. Il punto è che anche Túrin è accecato e non poteva riconoscere nella fanciulla sua sorella poiché ne aveva un’idea completamente distorta: quella di una bambina, simile probabilmente alla sorellina perduta e non quella di una donna adulta, così non coglie la somiglianza con il proprio padre, anche perché egli è più simile alla madre ed ha in mente e nel cuore la sua immagine. L’incesto tra fratello e sorella è profondamente diverso rispetto a quello tra madre e figlio presentato nell’Edipo; è necessaria una coscienza morale più evoluta e raffinata per considerarlo con lo stesso orrore. È soprattutto in epoca medioevale che incontriamo leggende che mettono a tema questo particolare rapporto, considerandolo come fonte di disgrazie o perlomeno come colpa da espiare. Ne troviamo un esempio proprio nella Volsunga saga: Sigurd, o Siegfrid, nasce dall’unione incestuosa di Siegmund e Sieglinde e ucciderà il drago con la spada del padre che era stata spezzata dallo stesso Odino. Sieglinde aveva voluto concepire un figlio con il fratello così che questi fosse doppiamente “volsungo” perché tutte le qualità della stirpe confluissero in lui. Non dimentichiamo l’altra unione incestuosa verificatasi con l’inganno: quella tra Artù e la sorella Morgana da cui nascerà Mordred il maledetto. Nel primo caso siamo in ambiente ancora pagano e l’unione dà vita ad un eroe che sarà però anche l’ultimo della sua stirpe, chiudendo così un ciclo iniziato nella notte dei tempi; nel secondo il frutto dell’unione sarà di per sé malvagio e causerà la distruzione di Artù e del regno. Ma perché un’unione di questo tipo porta con sé immagini di morte? Secondo Thomas Mann si tratta di un tentativo di realizzare il mito dell’androgino, ricercando l’identità anziché la diversità. L’unione tra maschile e femminile non avviene attraverso il rapporto con l’altro da sé ma ricercando il medesimo. I fratelli pur non conoscendosi, inconsciamente si riconoscono e non possono aprirsi al diverso, all’estraneo poiché non lo ritengono in grado di comprendere veramente la loro essenza che è data dall’essere innanzitutto “figli di Húrin e Morwen”; indissolubilmente uniti nella tragicità del loro fato, non possono uscire da se stessi. L’impossibilità di accogliere il nuovo ed il diverso impedisce alla natura di procedere, di volgersi al futuro, rappresenta un’involuzione, un ritorno all’indietro ed un volgersi su se stessi., proprio di quella “pulsione di morte” che si accompagna e si oppone contemporaneamente all’Eros.

 


1 J.R.R.Tolkien, Racconti incompiuti,Rusconi, Milano 1981, p.108

2 Idem, p.137-138

3 Idem, p.219

4 Idem, p.174

5 Idem, p.204