La storia di Frodo come antifona “pagana” dell’Incarnazione

Che ha a che fare Frodo con Cristo?

Domanda questa che Tolkien ha preso di petto scegliendosi un vero peso massimo come avversario. Era questi Alcuino di York, nato proprio alla morte di Beda nella stessa Northumbria e quasi un suo successore (ma di “fazione” opposta al Venerabile) per il rilievo acquisito dal diacono e dalla sua scuola nell’Inghilterra della seconda metà del ’700, fino a raggiungere la massima cattedra della Cristianità occidentale, offertagli da Carlo Magno ad Aquisgrana. È l’anno 797 o 798 quando Alcuino scrive all’abate di Lindisfarne, interessato alle ai racconti degli eroi germanici pagani:

Verba Dei legantur in sacerdotali convivio; ibi decet lectorem audiri, non citharistam! semones Patrum, non carmina Gentilium! Quid Hinieldus cum Christo? Angusta est domus, utrosque tenere non poterit.

Che le parole di Dio siano lette ai refettori dei sacerdoti; poiché ivi si conviene che sia udito il lettore, non il citaredo, le omelie dei Padri, non i canti dei pagani. Che ha a che fare Ingeld con Cristo? Angusta è la casa, entrambi non li può accogliere.

Alcuino scrivendo al responsabile dell’educazione del futuro miglior clero in patria (ruolo che a sua volta aveva ricoperto) non si rassegnava ad un simile interesse e probabilmente lo trovava ancor più assurdo in ragione del fatto che solo pochi anni prima nella grande abbazia della sua Northumbria i Normanni avevano consumato il primo saccheggio sulle coste inglesi, costringendoli ad abbandonarla provvisoriamente. Erano loro a cantare di quell’Ingjaldr (Norreno, Anglosassone Ingeld) dissoluto e vendicativo che onoravano della stessa sfrenatezza e crudeltà. Come potevano i monaci prestare ancora l’orecchio e ricercare degli eroi pagani? Che gli giovava? Alcuino tentava così di arginare una tendenza che reputava dannosa nella chiesa che gli aveva dati i natali.

Nelle bozze preparatorie alla sua rivoluzionaria lezione I Mostri e i Critici, con cui Tolkien ha ridisegnato interamente la concezione poema Beowulf, egli riprende la lettera di Alcuino e ricorda che i suoi avvertimenti non hanno, indipendentemente dall’autorità intervenuta, avuto la meglio sull’anima anglosassone. L’anonimo poeta di Beowulf è forse contemporaneo di Alcuino e discepolo del Caedmon: avendo menzionato proprio Ingeld una volta nei suoi versi, Tolkien li contrappone, conoscendo già l’esito della disputa, così come dalla revisione definitiva:

Possiamo quasi dire che il poema era (in una certa direzione) ispirato da un dibattito che si protraeva da lungo tempo e sarebbe continuato in seguito, e che fu uno dei principali contributi alla controversia: dobbiamo o no abbandonare alla perdizione i nostri antenati? Che vantaggio avrà la posterità a leggere la battaglia di Ettore? Quid Hinieldus cum Christo? L’autore illustrò il valore permanente della pietas che fa tesoro delle memorie degli sforzi dell’uomo dell’oscuro passato, uomo caduto e non ancora salvato, disgraziato ma non detronizzato.
[…] è il poeta stesso che ha reso così attraente l’antichità. In conseguenza di ciò, il poema ha un maggior valore, e costituisce per il pensiero dell’Alto Medioevo un contributo più grande della rigida ed intollerante concezione che consegnava tutti gli eroi al diavolo((Il Medioevo e il Fantastico (orig. The Monsters and the Cristics and other essays) a cura di Christopher Tolkien, ed. it. di Gianfranco de Turris e trad. Di Carlo Donà. I manoscritti preparatori sono stati pubblicati in un’illuminante edizione critica a cura di Michael Drout, Beowulf and the Critics by J.R.R. Tolkien, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies 2002.)).

I monaci hanno trovato posto nei loro refettori per gli arpisti, per l’insopprimibile nostalgia che nutrivano verso quelle leggende che erano state dimenticate con la cristianizzazione dell’Inghilterra. Ma gli eroi hanno potuto guadagnarsi il Paradiso? Secondo Tom Shippey (che per primo ha proposto la questione nei termini che abbiamo visto e la chiave della sua interpretazione filologica) Tolkien in quanto autore ha raccolto l’eredità del poeta di Beowulf ed il suo proposito, condividendo intimamente l’esigenza di non abbandonare all’oblio gli eroi che non avevano conosciuto Cristo. Tolkien si era scelto un avversario di tutto rispetto, sì, ma d’altro canto Alcuino era da tempo uscito perdente e non solo in Inghilterra. Solo la chiamata in causa di Tolkien avrebbe reso la sua domanda rilevante dopo più di un millennio.

Ingeld, “fortunato figlio di Fróda” nelle parole di Beowulf, era forse davvero un pagano inconciliabile con Cristo. Tolkien stesso nella lezione lo chiama «tre volte infedele e disponibile ad esserlo» ma il padre che alla fine aveva vendicato era tutto un altro discorso. Anche meno di Ingeld sopravvive di Fróda nella letteratura anglosassone ed anche qui il relativo scandinavo ha molto da raccontare. Di Fróði “il saggio” è narrato in extenso nella prima metà del XIII sec. sia da Sassone Grammatico nelle Gesta Danorum che da Snorri Sturluson nell’Edda in Prosa, ritagliandosi un posto di primissimo piano nei due pilastri delle tradizioni nordiche. Re tra i molti del suo nome, fu senza eguali per conquista ed unificazione delle genti dei Dani, regnando in una stagione ora priva di guerre, di malefatte e prevaricazioni. Il suo mito si staglia come contraltare baltico alla mediterranea pace augustea, per cui i due autori compilando le versioni a loro disposizione della leggenda non disdegnano di ostentarne le similitudini, così come lo stesso autore di Beowulf non faceva mistero dell’ammirazione verso l’epica e la poetica virgiliana. Afferma Snorri:

Poiché Fróði era il re più potente di tutte le terre del nord, la pace venne chiamata con il suo nome in tutte le lingue danesi e gli uomini la chiamarono dunque la Pace di Fróði((Prologo della Grottasǫngr, la Canzone del [mulino] Grotti, in Snorri Sturluson, Skáldskaparmál, dall’Edda in Prosa. Traduzione di Stefano Mazza e curatela in collaborazione con Dario Giansanti per Bifrost.it.))».

Nella leggenda di Snorri la pace è garantita da un mulino magico in possesso di Fróði che macina pace e prosperità, così come qualunque altra cosa desiderasse. Ma il benessere che ne scaturiva per tutte le terre dei Dani era dovuto all’incessante lavoro alla macina di due gigantesse cui mai veniva concesso di riposare. Contro questo abuso infine si stancarono, macinando di rivalsa un esercito pronto a distruggere la pace del re e a prenderne la vita, scatenando sulle sue terre guerra e rovina. Così il tentativo di un pagano di sfuggire alla ruota infinita del tempo mitico della crudeltà per proteggere il proprio popolo finisce tragicamente schiacciato da essa. Dopo il regno di Fróði la violenza della vendetta ricomincia a piagare il mondo delle epopee germaniche. Tuttavia, finché durò, la Pax Frothonis (Nor. Fróðafrið) o Pax Danica al nord come la Pax Augusti al sud fu possibile, secondo Sassone, osservare un segno del mutare del tempo, che lo sconvolge:

Nello stesso tempo venne sulla terra il nostro Salvatore e per redimere i mortali assunse sembianze umane, mentre ormai i popoli, spenti i fuochi di guerra, godevano la loro tranquillità in una pace imperturbabile. Si è pensato che la magnificenza di una pace tanto diffusa, dappertutto uniforme e non interrotta in nessuna parte del mondo, non servisse lo scopo di una sovranità terrena, quanto di una nascita divina, e che il dono inusuale di un tempo di pace fosse un gesto del cielo per segnalare la presenza in mezzo a noi del Signore dei tempi((Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, Libro V, XV, 3. Traduzione di Ludovica Koch in Gesta dei Re e degli Eroi Danesi, Einaudi (I millenni) 2003.))».

Dal Norreno “Fróði” all’Antico Inglese “Fróda”, Tolkien arriva ad una versione anglicizzata moderna di “Frodo”. Nello scegliere il nome del suo personaggio Tolkien raccoglie e rivisita la tradizione che i poeti anglosassoni avevano inaugurato nel tempo del Beowulf ed esplorando il nome ricostruisce la storia di chi lo porta. La ricostruzione filologica tipica dell’autore di Il Signore degli Anelli sviluppa un metodo d’invenzione letteraria insieme profondamente radicato nelle proprie fonti – finemente conosciute e studiate – ed estremamente imprevedibile nella sua evoluzione. Per l’autore stesso è una scoperta mentre la storia viene scritta. Frodo, debitore del dimenticato Fróda del Beowulf e del Fróði cronografato in Sassone e fantasticato in Snorri, riceve i tratti riconoscibili del tutore del pace (spendendosi, nella liberazione della Contea, perché nessuno venga ucciso) e con esso la grande malinconia di un eroe di cui non si trattiene il ricordo (è lui il meno riverito degli Hobbit al ritorno)((Tolkien desidera regalare a Fróda una menzione nostalgica nel suo dialogo Il ritorno Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, quando i due personaggi si avvedono della morte del loro signore caduto a Maldon, la paragonano alla caduta di Fróda, invocando le stesse lacrime.)). Mentre un’ombra incombe sul peso del fallimento, ecco che Frodo supera almeno in parte le sue fonti di modo che il suo fallimento non sia definitivo, pur rimanendo immancabilmente una figura che ancora dev’essere salvata.

Come il poeta anglosassone del VIII secolo aveva fatto per Beowulf, Tolkien per arrivare a Frodo parte da un pagano che può avere a che fare con Cristo. Un pagano che, secondo Shippey, si può dire “virtuoso”, una figura di transizione tra i rappresentanti più cruenti del paganesimo storico e mitico e la novità evangelica. Nei personaggi così delineati si vede una predisposizione all’accoglienza dell’Avvento di Cristo, più specificamente la tesi di Shippey si declina in una praeparatio evangelii come presentata dallo studioso in La Via per la Terra-di-Mezzo e J.R.R. Tolkien. Autore del secolo, che nelle intenzioni di Tolkien sarebbe eventualmente servita anche all’uomo in un mondo sempre più post-cristiano così come aveva evangelizzato un mondo pre-cristiano. Nell’interpretazione di Shippey i protagonisti della Terra-di-mezzo non possono essere consegnati al diavolo, né guadagnare il Paradiso, operano piuttosto in una sorta di limbo non così intimorito di fronte al «nobile castello» degli «spiriti magni» del Canto IV dell’Inferno di Dante. Per Shippey, ovvero, in Il Signore degli Anelli si è come contesi tra la una tensione autoriale alla virtù per costruzione deliberata e le regole imposte da un mondo pre-cristiano che tale deve rimanere, pagano, pur aspirando costantemente al proprio superamento. Il viaggio di Frodo è una prefigurazione dell’Incarnazione senza possibilità di confluire in essa, il tempo sconvolto dal Natale, uno non raggiungibile. Come se la ruota si fosse fermata, ma incastrata senza poter esser del tutto scardinata, scattando costantemente a vuoto.

Affine alla presentazione del problema da Shippey irrisolto – il quale ha comunque posto le basi per tutta la critica successiva nel dibatterne i termini – è la soluzione di Claudio Testi in Santi Pagani nella Terra-di-mezzo di Tolkien, che se non si può ancora dire risolutiva, probabilmente offre comunque la risposta più strutturata finora apparsa e, come descrizione quantomeno, piuttosto convincente. Il tomista sceglie lo strumento della sintesi dell’Aquinate per offrire la soluzione alla dialettica, descrivendo come, in un approccio di teologia naturale possibile sia internamente (nella narrazione) che esternamente (sulla narrazione, secondo le posizioni pagane e cristiane verso le tematiche fondamentali sollevate nell’intero opus) e in uno stile logico-formale, articolato nell’armonia tra Natura e Grazia solo il Cattolicesimo accoglie senza riserve il parossismo: proprio la natura pagana del mondo in cui prende vita il mito di Tolkien rende l’opera “fondamentalmente” cattolica, nella prerogativa del Cattolicesimo soltanto di conciliare armonicamente i due piani((Tale “armonia” nella sintesi del libro, articolo per articolo, è espressa quasi sempre come una non-contraddizione. Credo che il principale desideratum per un lettore di uno studio con simili premesse sarebbe ricevere una sintesi propositiva dell’armonia, non solo per esclusione delle contraddizioni. In ogni caso questo salto concettuale non indebolisce la tesi e perciò non costituisce un difetto dello studio. La speranza è che l’autore abbia riservato questo tipo di sviluppo a pubblicazioni future.)). Testi riesce così a dar conto di una posizione teologica chiara e possibile, usando strumenti e percorsi concettuali accessibili a Tolkien((L’autore è in possesso della copia personale di Tolkien della Summa Theologiae, che presenta diverse annotazioni. Altri autori hanno riconosciuto in Tolkien una formazione teologica tale da incamerare anche una specifica preparazione in senso tomistico.)), seppur ancora preclusi alla Chiesa Anglosassone figlia di Beda della quale l’inventore della Terra-di-mezzo si riconosceva figlio a sua volta.

La saggezza dell’antichità incarnata nello spirito nordico in Inghilterra, sebbene orfana dei propri canti, fu custodita e accolta, conservata per sempre. Tolkien forse riteneva la rapidità della conversione dell’Inghilterra una prova storica della conciliabilità tra rivelazione cristiana e lo spirito nordico pagano. Si può facilmente concordare con Shippey ((Tom Shippey, Tolkien eIl ritorno Beorhtnoth figlio di Beorhthelm”, 1991, trad. di Roberto Arduini in J.R.R. Tolkien, Il ritorno Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, a cura di Wu Ming 4.)) quando sostiene che l’autore avrebbe trovato conforto nell’avvertire che i suoi antenati avevano avuto lo stesso scopo; e, aggiungo io, che Frodo potesse legittimamente essere considerato il rampollo letterario di questa storia, cristiana e pagana, cattolica.

… quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa… da nessun’altra parte … era più nobile che in Inghilterra, né più presto santificato e cristianizzato»((Lettera #45 al figlio Michael del 9 giugno 1941. Nella presente lettera, Tolkien si rammarica che l’immagine del suddetto “spirito nordico” sia nella sua immediata contemporaneità ad uso e consumo della propaganda hitleriana, che ne pervertiva ogni afflato.)).

La storia di Frodo, che abbiamo preso come compagno in questo viaggio partito nella sera natalizia della Terra-di-Mezzo, non è solo, come si diceva in merito alla ricostruzione filologica di Tolkien, quella che piomba dalle antiche leggende nordiche sulle pagine della Contea. La sua storia è rischiarata dall’interno della narrazione di Il Signore degli Anelli e nel complesso dell’intera mitopoietica di Tolkien. Essa parte ancor da più lontano, da un nome che mille e più anni prima aveva forse folgorato un altro poeta di quella santa Inghilterra amica e amante dei pagani. Un nome del quale resisteva un ricordo ancora più fievole del danese Fróda.

CONTINUA a p.3  >>